venerdì 17 agosto 2012

Farmaci, la beffa del governo

Il ministro Balduzzi ha promesso una norma per obbligare i medici a scrivere sulla ricetta il nome della molecola invece del marchio della medicina. Ma i poteri forti della salute si sono ribellati. E l'esecutivo ha subito ceduto.

La spending review, in materia di farmaci, poteva fare molto. Ma ha partorito un topolino. Monti ci aveva promesso una norma che obbligasse finalmente l'accoppiata medico/farmacista a fare il nostro interesse e non quello delle industrie. Ci aveva promesso di obbligare i medici a scrivere sulla ricetta il nome della molecola che ci serve per guarire. E non quello del prodotto di marca prodotto da un'azienda specifica, di modo che il farmacista dovesse darci la confezione che costa meno; cioè, quando esiste, il cosiddetto generico che non costa meno perché è più scadente ma perché, essendo scaduto il brevetto, è prodotto da diverse aziende e questo abbassa il prezzo. Invece dal balletto delle lobby è uscita una norma azzeccagarbugli che confonde tutti: il medico deve scrivere sì il nome della molecola, ma anche può indicare la marca che preferisce e può obbligare il farmacista a consegnare proprio quella marca scrivendo un codicillo vincolante, sempre su quella ricetta. Che bel casino! Un pastrocchio che dovrebbe accontentare tutti. E infatti il ministro Balduzzi dichiara che è un equilibrio tra le esigenze di tutti, medici, farmacisti e industrie. E i pazienti? Balduzzi si li è dimenticati. Ma vorrei ricapitolare i fatti per chiarire perché questa è, come si dice a Roma, una sòla. 

1. quando scade il brevetto di un farmaco, qualunque industria, riconosciuta e autorizzata a produrre farmaci, può commercializzare il prodotto dal brevetto scaduto. e questo abbassa il prezzo. in tutti i paesi sensati la cosa sembra conveniente, tanto che in Inghilterra, ad esempio, ben l'83 per cento dei farmaci venduti sono generici, così come il 78 per cento di quelli venduti nella terra del liberismo, gli Usa. In Italia invece, nemmeno uno su due (solo il 47 per cento). la ragione di questa anomalia sta nel fatto che tutto è organizzato per spingere i poveri pazienti a comprarsi il farmaco di marca. 

2. nonostante la stolidità di Farmindustria che protegge farmaci vecchi e copiati invece che lasciarli ai produttori di generici per aprire la strada a farmaci nuovi e importanti, l'opera benemerita del fu-presidente Aifa Nello Martini ha fatto sì che il Ssn nazionale rimborsi al farmacista solo il prezzo del genrico. Ovvero: se io mi voglio comprare (perché il medico mi fa capire che funziona meglio) il gridato, pago la differenza. Il che dimostra che, nei fatti, questa puttanata d'agosto finisce col penalizzare soprattutto i cittadini. 

3. Ma non solo. Perché, nonostante quello che si è letto in questi giorni nelle varie dichiarazioni di medici e industriali, è chiaro a tutti che se si vendessero più generici, i produttori potrebbero abbassare ancora i prezzi con conseguente risparmio per il Ssn. E infatti Monti aveva introdotto la norma sui generici proprio perché contava di risparmiare circa 300 milioni l'anno. 

Il ministro Renato Balduzzi 4. Nonostante tutto, però, i farmaci di marca continuano a essere venduti ben più di quelli economici. Sostanzialmente perché il paziente è per lo più prono ai desideri del suo medico e se egli lo convince che il brand è meglio caccia gli euri dal suo portafoglio. ma non vi fa rabbia? Che i medici si approfittino così delle insicurezze e delle paure dei malati? Comunque, per ovviare a questa distorsione, il governo aveva introdotto nella spending review una norma che obbligava i medici a scrivere solo il principio attivo, che è quello che cura. Ma i medici hanno urlato alla lesa maestà: loro vogliono prescrivere quello che gli pare. E di per sé mi starebbe pure bene se, negli anni, non avessero dimostrato una imbarazzante propensione a fare gli interessi della grande industria e non quelli dei loro pazienti. 

5. Ora che il governo ha ceduto alle lobby congiunte dei medici e di Farmindustria, però, tutti gridano, ancora, alla lesa maestà. il segretario della federazione dei medici di medicina generale (Fimg), Giacomo Milillo, ha persino detto al Corriere della Sera che i suoi colleghi potrebbero non sapere il nome della molecola ma solo quello del prodotto, e che quindi questo aggrava le loro giornate: dovendolo scrivere saranno costretti a scoprirlo. Beh spero proprio di non finire nelle mani di quel medico che consulta più gli informatori delle aziende che la letteratura scientifica e quindi conosce i colori della scatolina e non le scoperte degli scienziati. Ma Milillo non sembra rendersi conto della figura grottesca che fa fare alla categoria. 

6. risultato: i pazienti continueranno a bersi la fola che il brand è meglio e a pagare la differenza, e le industrie continueranno a fare profitti su roba vecchia che sembra interessargli molto di più della sfida di scoprire nuovi farmaci e metterli rapidamente sul mercato. 

Fonte: Daniela Minerva per L'Espresso, 31 luglio 2012

lunedì 6 febbraio 2012

Salute: integratori sotto esaeme in USA e UE, problema tossicità

Drenano i liquidi in eccesso, potenziano i muscoli, aumentano la resistenza fisica: sono le promesse, non sempre mantenute, degli integratori, disponibili ovunque, dai supermercati, ai negozi specializzati, al gran bazar di Internet. Questa volta sono nuovamente sotto accusa per un allarme rimbalzato da un capo all'altro dell'oceano, dagli Stati Uniti, all'Europa. Innanzitutto i fatti: il Dipartimento della Difesa americano ha rimosso tutti i prodotti contenenti dimetilamilamina (dmaa, equivalente alla metilesanamima, inserita nella lista delle sostanze dopanti della Wada) dai negozi delle basi militari dopo la morte di due soldati di 22 e 32 anni che hanno avuto un infarto mentre facevano esercizi fisici. I prodotti acquistabili nelle basi americane, Jack3d e OxyElite, erano reperibili anche nei negozi specializzati e su Internet. Il secondo allarme è arrivato da un gruppo di ricercatori di Milano e di Wageningen, nei Paesi Bassi. In uno studio pubblicato su Food and Nutrition Sciences gli esperti hanno riscontrato in alcuni integratori vegetali la presenza di alchilbenzene, già vietata nell'Unione Europea come aromatizzante per gli alimenti.
In una parte di questi prodotti, a base di basilico, finocchio, noce moscata, sassofrasso, cannella, calamo o i loro oli essenziali, la quantità di alchibenzene era paragonabile a quella che, nelle sperimentazioni cliniche sugli animali, fa aumentare i casi di cancro al fegato. (ANSA).

Fonte: Filodiretto Federfarma, 6 febbraio 2012

lunedì 19 dicembre 2011

Liberalizzazioni farmaci. Tanto rumore per nulla? Ecco i "veri" risparmi secondo il Cermes

Nella migliore delle ipotesi la liberalizzazione dei farmaci porterebbe a un risparmio per i cittadini di 97 milioni l'anno, meno del 2% della spesa attuale. Al contrario liberalizzare l'alimentare o i servizi bancari, rispettivamente, vorrebbe dire risparmi per 8,5 e 7,1 miliardi. E allora, cui prodest?

19 DIC - Quanti farmacisti lavorano nelle parafarmacie e nei corner della Grande distribuzione organizzata (Gdo)? Difficile a dirsi: sono 7.000 per l’Associazione italiana parafarmacis italiane-Anpi (Ansa, 1 giugno 2011), ma sono 8.000 per Rosario Trefiletti di Federconsumatori (Radio Città Futura sabato 17 dicembre). La liberalizzazione abortita, poi, secondo Barbara Corrado (Il Messaggero, 18 dicembre) avrebbe portato a 3.000 nuovi esercizi, per un totale di 10.000 nuovi posti di lavoro (oltre ai 7-8.000 e tutti farmacisti? Perché se è così bisogna togliere il numero programmato nelle facoltà).

E quanto vale la Fascia C per le farmacie convenzionate? Poco, pochissimo: Claudio Molina, scrive all’Unità (18 dicembre) che il grosso dei ricavi della farmacia convenzionata è dato dalla Fascia A a carico del Ssn: vale un 70-80%, mentre un comunicato dell’Mnlf (Movimento nazionale dei liberi farmacisti) diramato dall’AdnKronos il 16 dicembre parla di una eventuale diminuzione del fatturato delle farmacie di 380 euro al mese se la liberalizzazione dell’etico non rimborsato fosse andata in porto. Eppure secondo Nuccio Natoli sul QN-La Nazione del 18 dicembre, dice che “è un settore che fattura circa 3 miliardi di euro all'anno e sul quale si stimava che una liberalizzazione potesse produrre l'effetto di ridurre la spesa per i cittadini di qualche centinaio di milioni”.

Se poi si esce dalle aride cifre e si passa ad aspetti normativi, l’impressione che si proceda a vista è comunque forte, se anche un commentatore del calibro di Aldo Cazzullo scrive sul Corriere del 16 dicembre: “Resteremo il Paese europeo in cui è più difficile trovare medicinali di largo consumo fuori dalle farmacie”. Scherziamo? In Francia non si vende nemmeno una compressa di paracetamolo fuori dalle farmacie, e in Gran Bretagna i farmaci Otc acquistabili al supermercato sono una lista ristretta. Nessuno, inoltre, parlando di concorrenza e risparmi fa notare che fino a oggi il prezzo dell’etico di Fascia C era bloccato per Legge e, quindi, non si capisce come si sarebbe potuta avviare una concorrenza sul prezzo.

Questo turbinare di cifre, che va ben oltre il piccolo cenno fatto qui, è l’ennesima riproposizione di una caratteristica italiana: è difficilissimo conoscere dati, se non certi, sui quali si sia almeno creato un consenso e questo vale per la prevalenza dell’artrite reumatoide come per il numero di centri di questa o quella specialità. I pochi dati certi nascono o dai registri e osservatori nazionali o dall’iniziativa di alcune società scientifiche. Chi si occupa di sanità lo sa bene.

C’è un’eccezione, però, ed è il rapporto che il Cermes (Centro di Ricerca su Marketing e Servizi) dell’Università Bocconi ha condotto per Federdistribuzione, mettendo a confronto gli effetti di una politica di liberalizzazioni in diversi settori di attività: distribuzione alimentare, distribuzione non alimentare, distribuzione di carburanti, distribuzione di farmaci, assicurazioni e servizi finanziari.

Il rapporto, molto dettagliato, si rifà ai dati del 2009. Per quel che riguarda il farmaco l’analisi del Cermes riguarda la liberalizzazione della Fascia C nel suo complesso che viene stimato, a valori in 2,1 miliardi di euro per Sop e Otc (11,1% del mercato), più 3,1 miliardi di etico (16,6% del mercato). Quindi la cifra è del 2009, ma è più o meno quella di cui si parla anche oggi.

Secondo l’indagine il mercato del farmaco non soggetto a prescrizione è rimasto “stabile se non stagnante” e l’ultimo dato riportato sui risparmi consentiti dal fuori canale (parafarmacie e Gdo), quello del 2008, è di circa 16,5 milioni di euro (cui andrebbero aggiunti i risparmi derivanti dagli sconti praticati dalle farmacie, ma non è questa la sede). Secondo il Cermes, la situazione evolverà, è ovvio, e si prospettano diversi scenari.

Il primo è che tutto resti com’è sul piano delle norme e della tendenza dei consumi, oppure che vi sia un adeguamento al mercato dell’OTC del resto d’Europa, notoriamente più florido.

Il secondo è che cambino le normative attuali, e questo può avvenire in due modi: la presenza del farmacista diviene facoltativa, oppure resta obbligatoria e viene distribuito fuori dalla farmacia anche il farmaco etico non rimborsato (ma non è specificato se si parla di tutte le classi o soltanto delle meno problematiche, cioè quelle soggette alla ricetta ripetibile).

Anche per il risparmio ottenibile si prospettano di conseguenza diversi scenari. Se tutto continua come ora, il risparmio generato dal fuori canale salirebbe a 35,4 milioni, se aumentasse il consumo di Otc fino a raggiungere il livello europeo i milioni sarebbero 45,4. Quest’ultima ipotesi, cioè l’adeguamento al resto d’Europa, potrebbe presentarsi più facilmente, visto che ora dovrebbe aumentare il numero dei farmaci non soggetti a prescrizione in conseguenza della norma prevista nella manovra finanziaria. Tuttavia resta un’incognita: non è che il livello e la natura dei consumi, per il farmaco, dipenda soltanto dall’offerta. Dipende anche dall’epidemiologica (storicamente, per esempio, nei Paesi nordici l’incidenza della cefalea è molto più alta) e anche da fattori culturali (ci fu un celebre libro della giornalista scientifica Lynn Payer che nel 1988 dimostrò notevoli differenze in seno all’Europa).

Nel caso che l’etico di Fascia C uscisse dalla farmacia, parafarmacie e Gdo garantirebbero 52 milioni di risparmi, che andrebbero a sommarsi ai risparmi generati sull’automedicazione. Ma questo, al massimo porterebbe a un risparmio nel 2012 di 97 milioni, pari all'1,86% della spesa attuale. Quindi, secondo le stime del Cermes, siamo ben lontani dalle “centinaia di milioni” di risparmi ipotizzate sui giornali.

Quanto renderebbero invece le altre liberalizzazioni? Liberalizzare la distribuzione alimentare, 8.427 milioni, quella non alimentare 2.552; liberalizzare i servizi bancari farebbe risparmiare 7.100 milioni, quelli assicurativi, 4.100. Come dicono gli avvocati, res ipsa loquitur: la cosa parla da sé. Tanto è vero che, correttamente, l’indagine chiarisce che per il cittadino i vantaggi non verrebbero in termini di risparmio, ma di maggiore accessibilità al servizio da parte dei cittadini.

Peccato che non sia stata indagato anche il giudizio dei cittadini stessi sull’attuale accessibilità delle farmacie. Ma su questo tema le indagini non mancano: da quelle condotte per conto del Ministero della Salute a quelle condotte, dalla Sda Bocconi, per la Fofi. Risultato univoco: la capillarità non sembra essere un problema.

Fonte: quotidianosanita.it, 19 dicembre 2011

Commento: come dicevo, "quanto è possibile far risparmiare [sul farmaco, ndDarimar] in modo da incidere significativamente sulla spesa complessiva media (mutuo, affitto, bollette, generi alimentari, carburante, eccetera) del singolo cittadino?"

giovedì 10 novembre 2011

Promuovere il "consumo" dei farmaci è corretto?

Quando si parla di medicinali la maggior parte delle persone, indipendentemente dal proprio titolo di studio o dal proprio livello socioeconomico, comprende, o almeno intuisce, come promuoverne il "consumo" rappresenti qualcosa di negativo, di indesiderabile, di rischioso.
Questa condivisione di pareri si basa sull'ormai assodato assunto che l'assunzione di un farmaco implichi quasi sempre controindicazioni, potenziali effetti collaterali e una serie di eventuali inconvenienti tali da indurci a utilizzare i medicinali sempre con una certa cautela e, comunque, il meno possibile.
I primi a lavarsi la bocca con esortazioni di questo tipo sono i Dottori (medici e farmacisti in testa), assieme alle proprie associazioni di categoria e, ovviamente, alle istituzioni sanitarie. Ma, lo ripeto, il discorso è talmente chiaro da risultare quasi banale per chiunque ci rifletta anche solo un istante. Nessuno, in generale, si sognerebbe mai di affermare che incentivare il consumo di medicinali, indipendentemente dal fine - men che meno qualora tale fine risultasse essere prettamente economico - sia etico, morale o anche solo "utile" dal punto di vista sanitario. Per tacere sui già citati rischi per la salute, ovviamente!

Un discorso analogo, con le dovute proporzioni, potrebbe essere applicato alla "promozione della prescrizione di medicinali" da parte dei medici. Eh, qui le cose si fanno addirittura più pericolose, perchè in gioco ci sono farmaci dal profilo tossicologico davvero letale, se non si fa attenzione (talvolta, pure se si fa attenzione...). E, di nuovo, siamo più o meno tutti d'accordo nel dire che qualsiasi tentativo di indurre il medico a prescrivere farmaci, o comunque di promuovere la prescrizione di farmaci da parte del medico, rappresenti un rischio per la salute del paziente, nonchè un fastidio per il medico stesso, dal momento che "il medico non deve soggiacere a interessi, imposizioni e suggestioni di qualsiasi natura" (Codice di deontologia medica, Art. 5) e che, comunque, "il medico ha l’obbligo dell'aggiornamento e della formazione professionale permanente, onde garantire il continuo adeguamento delle sue conoscenze e competenze al progresso clinico scientifico" (Codice di deontologia medica, Art. 16).

Giusto per completezza, tiriamo in ballo anche la mia professione. Cosa diremmo se qualcuno cercasse di incentivare o promuovere la vendita dei medicinali da parte del farmacista? Il discorso, sempre con le dovute proporzioni, è molto simile a quello appena fatto per il medico, dal momento che le due deontologie professionali hanno molto in comune: il farmacista ha il "dovere della formazione permanente e dell'aggiornamento professionale al fine di adeguare costantemente le proprie conoscenze al progresso scientifico, all'evoluzione normativa, ai mutamenti dell'organizzazione sanitaria e alla domanda di salute dei cittadini" (Codice dentologico del Farmacista, Art. 9), "il farmacista promuove l'automedicazione responsabile e scoraggia l'uso di medicinali di automedicazione quando non giustificato da esigenze terapeutiche" (Art. 10), addirittura, sempre in riferimento al discorso in questione, "costituisce grave abuso professionale incentivare, in qualsiasi forma, le prescrizioni mediche o veterinarie, anche nell'ipotesi che ciò non costituisca comparaggio" e "Costituisce grave abuso e mancanza professionale acconsentire, proporre o accettare accordi tendenti a promuovere la vendita di medicinali finalizzata ad un loro uso incongruo o eccedente le effettive necessità terapeutiche per trarne un illecito vantaggio". (Art. 14).

Insomma, promuovere la prescrizione, la fornitura, la vendita o il consumo di medicinali, comunque la si metta, rappresenta qualcosa di "brutto", di non conforme alla dentologia dei professionisti sanitari deputati alla prescrizione/vendita dei medicinali e di rischioso per la salute di chi "consuma" tali prodotti.

La realtà dei fatti

Tutto quello che avete appena letto è una favoletta! In realtà, non è vero niente!
A termini di legge, vediamo di capirci subito, il farmaco è un business e la salute pubblica è solo un ambito rotando attorno al quale tale business può fruttare introiti. E come si fa a far fruttare un business come il farmaco sfruttando la salute pubblica? Nel modo in cui abbiamo impostato il discorso qui sopra: promuovendo la prescrizione, la fornitura, la vendita o il consumo di medicinali, ovvio.
E come faccio a promuovere la prescrizione, la fornitura, la vendita o il consumo di medicinali?
Esattamente come promuovo la vendita e il consumo di qualsiasi altro prodotto: con la pubblicità, ovvio.
E, infatti, la legge è molto chiara nel definire la pubblicità dei medicinali:

"Ai fini del presente titolo si intende per «pubblicità dei medicinali» qualsiasi azione d'informazione, di ricerca della clientela o di esortazione, intesa a promuovere la prescrizione, la fornitura, la vendita o il consumo di medicinali; essa comprende in particolare quanto segue:

a) la pubblicità dei medicinali presso il pubblico;

b) la pubblicità dei medicinali presso persone autorizzate a prescriverli o a dispensarli, compresi gli aspetti seguenti:

[Omissis]

3) l'incitamento a prescrivere o a fornire medicinali mediante la concessione, l'offerta o la promessa di vantaggi pecuniari o in natura, ad eccezione di oggetti di valore intrinseco trascurabile;

[Omissis]"
(DL 219/2006, Titolo VIII, Art. 113)


La legge non solo rende lecita la pubblicità dei medicinali ma addirittura, spiegando come e semplicemente esistendo, incoraggia a "promuovere la prescrizione, la fornitura, la vendita o il consumo di medicinali" attraverso la pubblicità stessa. Ah, certo, il Titolo VIII è ricco di precisazioni sui limiti che la pubblicità, e in particolare la pubblicità al pubblico, deve osservare. Ad esempio, all'Art. 114 leggiamo che:

La pubblicità di un medicinale:

a) deve favorire l'uso razionale del medicinale, presentandolo in modo obiettivo e senza esagerarne le proprietà;

b) non può essere ingannevole.

Certo che questi hanno la faccia come il Qulo. Voglio dire: tu che leggi, pensa per un istante allo spot pubblicitario di un qualsiasi antiinfiammatorio (Aspirina, Voltaren, Moment, eccetera). Vedi i tizi protagonisti dello spot quasi in fin di vita, apparentemente incapaci persino di alzarsi dal letto a causa dei dolori e/o dell'infiammazione che li affligge. Poi arriva IL rimedio: prendi una o due compresse (nessun riferimento alla gastrolesività degli antiinfiammatori e nessuna raccomandazione ad assumerli a stomaco pieno o, eventualmente, associati a gastroprotettori) oppure ti spalmi un po' di gel, ed ecco fatto: sei come nuovo, pronto ad andare al lavoro, a fare jogging, ad andare in discoteca. Nessun problema!
E volete farmi credere che spot di questo genere "favoriscono l'uso razionale del medicinale,
presentandolo in modo obiettivo e senza esagerarne le proprietà" e "non sono ingannevoli"?!

Ecco il valore della legislazione farmaceutica in quest'ambito: garantisce la possibilità di "promuovere la prescrizione, la fornitura, la vendita o il consumo di medicinali" e, per salvare le apparenze, pone limitazioni che, di fatto, neppure vengono prese in considerazione.

Ai confini della realtà

Se la realtà dei fatti è molto distante da come la maggior parte della gente si rapporta ai rischi legati e al "promuovere la prescrizione, la fornitura, la vendita o il consumo di medicinali", i risvolti concreti e conclusivi legati alla pubblicità al pubblico dei medicinali è ai confini della realtà.
La pubblicità funziona (e chi spenderebbe le cifre richieste se non funzionasse?). Il che significa che il cittadino che assiste allo spot pubblicitario è realmente ed effettivamente indotto ad acquistare il farmaco reclamizzato. Ripeto: la pubblicità dell'Enterogermina e del Volteren Emulgel non costano 100,00 Euro, ed è per questo che il cittadino paga tali farmaci più di altrettanti integratori alimentari assai più efficaci o di medicinali equivalenti a minor costo. C'è da domandarsi per quale motivo il cittadino richieda, invece, Enterogermina e Voltaren Emulgel, giusto per mantenere questi due esempi a fronte di dozzine possibili.
Sono sicuro che ciascun lettore starà dicendo "Ah, beh, io non mi faccio di sicuro incantare!". Certo che no, è come la faccenda delle prostitute: "Ah, io con quelle no di certo!" eppure "quelle" sono sempre piene di clienti. Senza per questo mettere in dubbio il pensiero del singolo lettore, ci mancherebbe! Fatto sta che il farmaco OTC, reclamizzato in TV e non solo, non fa eccezione: i software gestionali delle farmacie sono testimoni assolutamente affidabili e, come ho accennato poco sopra, se i produttori del farmaco continuano a investire centinaia di migliaia di Euro in pubblicità, significa, in qualche modo, che essa produce un ritorno economico. Nessuno lavora in perdita, no?
Infatti, i farmaci di automedicazione più reclamizzati sono anche quelli più richiesti (e, quindi, più venduti). Per ciascuno - "xyz" - di questi farmaci ne esistono di identici a minor prezzo; oppure di simili con maggior efficacia oppure di simili con migliore tollerabilità.
Eppure, e ora parlo in base alla mia limitata e personale esperienza professionale, chi entra in farmacia chiede "xyz" senza neppure chiedere se c'è qualcosa di uguale che costa meno oppure qualcosa di simile che è più efficace o meglio tollerato. Parlo in generale, ovviamente: le eccezioni esistono ma sono decisamente poche.

Conclusioni: per il paziente

Al pari del medico, e a differenza del tatuatore, della callista, del massaggiatore, del tizio che fa il piercing, eccetera, il farmacista è un Dottore. Tutti i Farmacisti, in quanto tali, sono Dottori.
Quando vai in farmacia per un disturbo medio/lieve e occasionale, se possibile, non chiedere un farmaco in particolare. Esponi al farmacista, che è un Dottore, la tua situazione, descrivigli i tuoi sintomi, la tua condizione, i tuoi pensieri e rispondi a tutte le sue eventuali domande (non te le fa per farsi i c@zzi tuoi ma per comprendere meglio la natura del tuo problema). Lascia che il farmacista, che è un Dottore, si faccia un'idea della tua problematica: saprà probabilmente consigliarti un rimedio indicato nel tuo caso. Sarà un consiglio, non un'imposizione. Se non sei convinto, chiedigli ulteriori delucidazioni, finchè le risposte non ti avranno soddisfatto. Dopo di che, fai pure la tua scelta, in assoluta libertà, magari ringraziando il farmacista, che è un Dottore, per la consulenza gratuita che hai ricevuto.

martedì 8 novembre 2011

Farmaci. In Italia prezzi in farmacia più bassi d’Europa e pagamenti lumaca

Costano il 30% in meno. Più bassi anche i prezzi degli ospedalieri (-10%). I conti in una simulazione elaborata da Prometeia nel rapporto sull’industria farmaceutica in Europa. Che punta l'indice anche sui ritardi di pagamento delle Asl. Farmindustria: "Una zavorra per la crescita".

Le imprese operanti in Italia hanno a disposizione minori risorse finanziarie rispetto a quelle che operano negli altri Paesi europei, in relazione a condizioni operative tendenzialmente più penalizzanti: prezzi più bassi, costi più elevati, tempi di pagamento più lunghi. In particolare, sui tempi di pagamento, nell’arco temporale in cui in Italia le imprese vengono pagate una volta, in Germania, ad esempio, sono pagate circa 4 volte. Solo la Grecia registra dati peggiori dei nostri.
Una criticità denunciata da tempo dalle imprese. Per anni, infatti, il tempo medio con cui Asl e Regioni pagavano le aziende fornitrici è stato in media pari a 10 mesi e il recupero avvenuto a partire dal 2008, con tempi scesi a 224 giorni (sotto gli 8 mesi) nella media del 2010, è ormai un lontano ricorso. I tempi di attesa sono infatti tornati a crescere e nel secondo trimestre del 2011 hanno raggiunto i 236 giorni, con un trend del +9,3% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Una situazione che produce danni per 3,5 miliardi di euro di mancati investimenti in produzione, ricerca e sviluppo da parte dell`industria farmaceutica che l’industria potrebbe invece investire se le Asl e le Regioni pagassero puntualmente. E a parità di altre condizioni, basterebbe un’accelerazione dei pagamenti delle strutture pubbliche del 10% (22,4 giorni in meno) per liberare risorse pari a 400 milioni di euro, che le aziende potrebbero reinvestire nel Paese.

A certificare i danni è un’analisi di Prometeia, elaborata per conto di Farmindustria sulla base di 900 bilanci di un campione di imprese farmaceutiche operanti nell Ue 15 che registrano un valore di produzione superiore o uguale a 5 milioni di euro. Per l'Italia si tratta di 237 imprese, per una produzione farmaceutica pari a 22.459 milioni di euro (fonte Farmindustria).

L'analisi punta i riflettori anche su altri fattori che stanno mettendo in difficoltà le aziende, come le molte scadenze brevettuali (stimate, entro il 2014, nel 50% del mercato ancora in-patent), l’aumento dei costi della R&S e gli effetti delle manovre di contenimento della spesa pubblica a fronte di una crescente domanda di Salute. Tutto questo si traduce in un rallentamento del valore della produzione e in una significativa compressione della reddività (valutato attraverso il Roi), sceso, nel campione d’imprese operanti in Italia, al valore mediano di 5,6% nel 2009 dal 7,2% nel 2002 mantenendo un differenziale negativo di 1,4 punti percentuali rispetto alla media Ue15 e di ben 2 punti rispetto all’insieme degli altri Big (oltre il 30% della redditività, in tutto il periodo).
Il gap è consistente soprattutto nei confronti dei concorrenti di Francia, Germania (3 punti percentuali in meno nella media del periodo) e, nell’ultimo biennio, anche della Spagna (2,5 punti percentuali). In termini di variazione percentuale, tra il 2002 e il 2009 il Roi (Return On Investment) dell’industria farmaceutica è diminuito del 22% in Italia, del 15% negli altri Big Ue e del 12% nella media dell’Ue 15.

A condizionare negativamente le imprese del farmaco in Italia concorrono anche i prezzi dei medicinali, più bassi rispetto a tutto il resto d’Europa nel canale farmacia (-30%) e inferiori del 10% rispetto ai Big Ue per quanto riguarda i medicinali a uso ospedaliero; complessivamente la spesa procapite è inferiore del 25% rispetto alla media dei Big Ue. I prezzi in farmacia, in particolare, sono in calo ormai da 10 anni, con un -27% dal 2001 al 2011, rispetto a un’inflazione del +23%. Le differenze sono poi amplificate in termini di redditività complessiva (Roe) dalla maggiore pressione fiscale, con un gap rispetto agli altri Big Ue di 16 punti percentuali (cioè il 35% in più).

Le imprese del farmaco in Italia però resistono e lo fanno grazie all’export, che tra il 2000 e il 2010 l’export ha determinato l’85% della crescita totale della produzione farmaceutica in Italia. “Tuttavia – avverte però il rapporto – una crescita basata quasi esclusivamente sull’export, pur evidenziando la capacità competitività delle imprese, ne mette a rischio la sostenibilità, qualora gli spazi di ulteriore sviluppo all’estero dovessero ridursi”. E così le prospettive restano difficili, anche se i dati registrati per questa voce sono ancora oggi positivi: le esportazioni sono aumentate sia nel 2009, sia nel 2010, facendo salire la quota di produzione esportata al 56% e le performance all’estero delle imprese del farmaco che operano in Italia si stanno confermando positive anche nel 2011, con l’export ormai prossimo al 60% del valore della produzione.

“L’analisi di Prometeia - ha affermato il presidente di Farmindustria, Massimo Scaccabarozzi, commentando lo studio - conferma che le imprese in Italia hanno sinora dimostrato la capacità di vincere la sfida dei mercati esteri, con una propensione all’export ormai proiettata al 60%. Lo studio però evidenzia anche i vincoli del Sistema Paese, con un gap complessivo di redditività (30% in meno rispetto ai Big Ue) che deriva da prezzi più bassi, costi più elevati (ad esempio per energia, trasporti, burocrazia) e tempi di pagamento più lunghi. È una situazione che - sottolinea Scaccabarozzi - pesa in misura crescente nel processo di rilocalizzazione globale delle imprese che, a prescindere dal loro capitale, operano a livello internazionale investendo nei Paesi dove il rendimento è maggiore".
Ricordando, in particolare, lo svantaggio a carico delle imprese italiane per quanto riguarda i tempi di pagamento, il presidente di Farmindustria ha affermato che si tratta di "un credito verso lo Stato troppo a lungo immobilizzato, che risulta ancora più preoccupante se considerato alla luce dell’aumento dei tempi di pagamento da parte delle strutture pubbliche, che nel terzo trimestre 2011 sono più alti del 12% rispetto allo scorso anno, come mostra una recente rilevazione di Farmindustria. È un’ulteriore zavorra per la crescita del settore in Italia - ha concluso Scaccabarozzi -, che si riflette in minori risorse (anche ingenti come mostra lo studio) da poter investire e in minore redditività, e che quindi penalizza la capacità di attrarre nuovi investimenti 'strappandoli' alla concorrenza degli altri Sistemi Paese".

Fonte: quotidianosanita.it, 8 novembre 2011

giovedì 3 novembre 2011

2006-2010: 4 anni di risparmi sui farmaci di libera vendita. E poi?..

Qualche giorno fa riflettevo su un dato fornito dal Presidente di ANIFA (Associazione Nazionale dell'Industria Farmaceutica dell'Automedicazione) Stefano Brovelli a Nuovo Collegamento durante un'intervista dal tema "OTC e Farmacisti".
"Le persone non vogliono risparmiare un euro o cinquanta centesimi sulla salute. Del resto, in Italia si spendono solo 37 euro all’anno pro capite per l’automedicazione. I farmaci per l’automedicazione costano molto poco: non mi sembra che sia in questo campo che occorre cercare il risparmio".
L'affermazione di Brovelli, con la quale concordo dalla prima all'ultima parola, mi ha indotto a rileggere qualche rapporto Osmed sull'uso dei farmaci in Italia, più che altro per valutare i risultati della Legge 248/2006 (altrimenti nota come "Legge Bersani") intitolata "Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonchè interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale".
Stando ai dati Osmed, nel 2006 gli Italiani (secondo l'Istat, 59.131.287 di anime al 31/12/2006) hanno speso, in farmaci di libera vendita, 2.094 milioni di Euro; nel 2010 (60.340.328 al 01/01/2010, sempre secondo l'Istat) 2.060 milioni di Euro. Fatta una media di 60.000.000 di Italiani, ciascuno di essi ha speso, in farmaci di libera vendita, circa 34,90 Euro nel 2006 (cifra che ben giustifica un decreto contenente misure urgenti per salvaguardare il portafogli del cittadino) e circa 34,30 Euro nel 2010 (cifra che ben dimostra l'effettiva necessità di un simile intervento e, soprattutto, i risultati ottenuti).
Come giustamente sostiene Brovelli, "i farmaci per l’automedicazione costano molto poco: non mi sembra che sia in questo campo che occorre cercare il risparmio". Se davvero il fine è fare in modo che il cittadino spenda meno, bisognerebbe forse prima individuare gli ambiti in cui la spesa è più rilevante e, solo dopo, intevenire su di essi in modo mirato. Voglio dire... neppure 35,00 Euro di spesa annua... ma facciamo anche 37,00 come ha detto Brovelli: anche se per assurdo rendessimo interamente mutuabili i farmaci OTC e SOP, in un anno ciascuno di noi risparmierebbe 37,00 Euro, pari a circa 3,00 Euro al mese. Come ho scritto, questa è, ovviamente, un'ipotesi assurda. Realisticamente, su 37,00 Euro annui, quanto è possibile far risparmiare in modo da incidere significativamente sulla spesa complessiva media (mutuo, affitto, bollette, generi alimentari, carburante, eccetera) del singolo cittadino? E' davvero togliere dignità e "costituzionalità" al farmaco, che non è un bene commerciale di consumo bensì un bene etico di salute, e al paziente, che non è un consumatore bensì uno sventurato per il quale ricorrere al medicinale è una necessità, la strada migliore per risolvere i problemi economici degli italiani e rilanciare l'economia di un intero Paese?

E poi?... Per contro, cosa ci siamo ritrovati?
Una situazione che non ha riscontri nel mondo: il farmaco vendibile fuori dalle farmacie... ma solo a patto che "sia presente" un farmacista. Il risultato di questa anomalia si è manifestato nel corso degli ultimi anni ed è ancora attualissimo: richieste di "sanatorie" per la trasformazione di alcuni esercizi commerciali in farmacia (e ci sono politicanti che le hanno pure prese in considerazione, fra il 2010 e il 2011); richieste di maggiori riconoscimenti professionali per gli esercizi commerciali di proprietà di farmacisti (la Legge Bersani garantisce che chiunque, indipendentemente al proprio titolo di studio, possa essere titolare di una "parafarmacia" e assumere un farmacista, come proprio dipendente, per poter vendere farmaci OTC e SOP. Peccato che, all'indomani dell'entrata in vigore del DL 223/2006, nessuno abbia fatto una piega a tal proposito...), richieste di allargare il "pacchetto-farmaco" esitabile negli esercizi commerciali anche ai medicinali a carico del cittadino subordinati a prescrizione medica (3.057 milioni procapite/anno nel 2006, 3.114 nel 2010, pari rispettivamente a 50,95 e 51.90 Euro/cranio. Qui magari riusciamo a far risparmiare addirittura più di 1.00 Euro all'anno a ciascun Italiano, sempre che si elimini il prezzo fisso e stabilito arbitrariamente dai titolari dell'AIC. Così il "diritto alla salute", paritario per ciascun cittadino secondo l'Art. 32 della Costituzione, diverrà ancor più impari), serie denuncie della situazione che è venuta a crearsi, un sempre maggiore conflitto fra colleghi farmacisti che lamentano a gran voce i "soprusi" (arroganza, ignoranza, incompetenza, scarsa professionalità, eccetera) di alcuni, non meglio identificati, titolari di farmacia e gli "illeciti" che vengono compiuti in alcune, non meglio identificate, farmacie (medicinali etici dispensati senza ricetta, non laureati che svolgono le mansioni del farmacista, eccetera) ma che non propongono alcunchè per ovviare a tali situazioni indesiderabili, se non auspicare per sè una "pseudo-farmacia" la quale - senza un'adeguata revisione dell'attuale sistema di "controlli & sanzioni" - sarà identica (stessi potenziali "soprusi", siamo tutti esseri umani; stessi potenziali "illeciti", sono tutte aziende) alle altre realtà tanto disprezzate.

Previsioni per il futuro? In base alla mia personale e limitata esperienza, il mercato e gli aspetti economici tendono sempre a prevalere sulla Salute e sugli aspetti sanitari.

lunedì 31 ottobre 2011

Romani: liberalizzare le farmacie? Non è misura per la crescita

Liberalizzare il servizio farmaceutico potrebbe avere come conseguenza la concentrazione della maggior parte degli esercizi nei grandi centri urbani, come Milano o Roma, lasciando sguarniti luoghi più scarsamente popolati o disagiati. E d'altra parte il provvedimento sarebbe ben lontano dall'essere una misura per la crescita. Parola del ministro per lo Sviluppo economico, Paolo Romani, coordinatore per altro dei lavori sul decreto sviluppo, che settimana scorsa è intervenuto alla trasmissione televisiva Porta a Porta, dedicata alle misure per la crescita. L'occasione dell'intervento, secondo quanto riporta Federfarma sul suo sito, è stata fornita da un servizio giornalistico che ha preso spunto dall'articolo di Michele Ainis sul Corriere della Sera del 20 ottobre sull'Italia delle corporazioni. Romani avrebbe risposto all'affermazione secondo cui in Italia non si riescono a portare avanti riforme di sistema perché vengono sempre bloccate dalle lobby. E tra gli esempi proposti dal conduttore di Rai 1 gli ordini professionali, i notai, gli avvocati e anche le farmacie. Romani ha però ribadito che toccare il servizio farmaceutico non costituirebbe un processo di liberalizzazione e che non è questa una vera misura per la crescita di cui l'Italia ha bisogno.

Fonte: Farmacista33, 31 ottobre 2011