lunedì 19 dicembre 2011

Liberalizzazioni farmaci. Tanto rumore per nulla? Ecco i "veri" risparmi secondo il Cermes

Nella migliore delle ipotesi la liberalizzazione dei farmaci porterebbe a un risparmio per i cittadini di 97 milioni l'anno, meno del 2% della spesa attuale. Al contrario liberalizzare l'alimentare o i servizi bancari, rispettivamente, vorrebbe dire risparmi per 8,5 e 7,1 miliardi. E allora, cui prodest?

19 DIC - Quanti farmacisti lavorano nelle parafarmacie e nei corner della Grande distribuzione organizzata (Gdo)? Difficile a dirsi: sono 7.000 per l’Associazione italiana parafarmacis italiane-Anpi (Ansa, 1 giugno 2011), ma sono 8.000 per Rosario Trefiletti di Federconsumatori (Radio Città Futura sabato 17 dicembre). La liberalizzazione abortita, poi, secondo Barbara Corrado (Il Messaggero, 18 dicembre) avrebbe portato a 3.000 nuovi esercizi, per un totale di 10.000 nuovi posti di lavoro (oltre ai 7-8.000 e tutti farmacisti? Perché se è così bisogna togliere il numero programmato nelle facoltà).

E quanto vale la Fascia C per le farmacie convenzionate? Poco, pochissimo: Claudio Molina, scrive all’Unità (18 dicembre) che il grosso dei ricavi della farmacia convenzionata è dato dalla Fascia A a carico del Ssn: vale un 70-80%, mentre un comunicato dell’Mnlf (Movimento nazionale dei liberi farmacisti) diramato dall’AdnKronos il 16 dicembre parla di una eventuale diminuzione del fatturato delle farmacie di 380 euro al mese se la liberalizzazione dell’etico non rimborsato fosse andata in porto. Eppure secondo Nuccio Natoli sul QN-La Nazione del 18 dicembre, dice che “è un settore che fattura circa 3 miliardi di euro all'anno e sul quale si stimava che una liberalizzazione potesse produrre l'effetto di ridurre la spesa per i cittadini di qualche centinaio di milioni”.

Se poi si esce dalle aride cifre e si passa ad aspetti normativi, l’impressione che si proceda a vista è comunque forte, se anche un commentatore del calibro di Aldo Cazzullo scrive sul Corriere del 16 dicembre: “Resteremo il Paese europeo in cui è più difficile trovare medicinali di largo consumo fuori dalle farmacie”. Scherziamo? In Francia non si vende nemmeno una compressa di paracetamolo fuori dalle farmacie, e in Gran Bretagna i farmaci Otc acquistabili al supermercato sono una lista ristretta. Nessuno, inoltre, parlando di concorrenza e risparmi fa notare che fino a oggi il prezzo dell’etico di Fascia C era bloccato per Legge e, quindi, non si capisce come si sarebbe potuta avviare una concorrenza sul prezzo.

Questo turbinare di cifre, che va ben oltre il piccolo cenno fatto qui, è l’ennesima riproposizione di una caratteristica italiana: è difficilissimo conoscere dati, se non certi, sui quali si sia almeno creato un consenso e questo vale per la prevalenza dell’artrite reumatoide come per il numero di centri di questa o quella specialità. I pochi dati certi nascono o dai registri e osservatori nazionali o dall’iniziativa di alcune società scientifiche. Chi si occupa di sanità lo sa bene.

C’è un’eccezione, però, ed è il rapporto che il Cermes (Centro di Ricerca su Marketing e Servizi) dell’Università Bocconi ha condotto per Federdistribuzione, mettendo a confronto gli effetti di una politica di liberalizzazioni in diversi settori di attività: distribuzione alimentare, distribuzione non alimentare, distribuzione di carburanti, distribuzione di farmaci, assicurazioni e servizi finanziari.

Il rapporto, molto dettagliato, si rifà ai dati del 2009. Per quel che riguarda il farmaco l’analisi del Cermes riguarda la liberalizzazione della Fascia C nel suo complesso che viene stimato, a valori in 2,1 miliardi di euro per Sop e Otc (11,1% del mercato), più 3,1 miliardi di etico (16,6% del mercato). Quindi la cifra è del 2009, ma è più o meno quella di cui si parla anche oggi.

Secondo l’indagine il mercato del farmaco non soggetto a prescrizione è rimasto “stabile se non stagnante” e l’ultimo dato riportato sui risparmi consentiti dal fuori canale (parafarmacie e Gdo), quello del 2008, è di circa 16,5 milioni di euro (cui andrebbero aggiunti i risparmi derivanti dagli sconti praticati dalle farmacie, ma non è questa la sede). Secondo il Cermes, la situazione evolverà, è ovvio, e si prospettano diversi scenari.

Il primo è che tutto resti com’è sul piano delle norme e della tendenza dei consumi, oppure che vi sia un adeguamento al mercato dell’OTC del resto d’Europa, notoriamente più florido.

Il secondo è che cambino le normative attuali, e questo può avvenire in due modi: la presenza del farmacista diviene facoltativa, oppure resta obbligatoria e viene distribuito fuori dalla farmacia anche il farmaco etico non rimborsato (ma non è specificato se si parla di tutte le classi o soltanto delle meno problematiche, cioè quelle soggette alla ricetta ripetibile).

Anche per il risparmio ottenibile si prospettano di conseguenza diversi scenari. Se tutto continua come ora, il risparmio generato dal fuori canale salirebbe a 35,4 milioni, se aumentasse il consumo di Otc fino a raggiungere il livello europeo i milioni sarebbero 45,4. Quest’ultima ipotesi, cioè l’adeguamento al resto d’Europa, potrebbe presentarsi più facilmente, visto che ora dovrebbe aumentare il numero dei farmaci non soggetti a prescrizione in conseguenza della norma prevista nella manovra finanziaria. Tuttavia resta un’incognita: non è che il livello e la natura dei consumi, per il farmaco, dipenda soltanto dall’offerta. Dipende anche dall’epidemiologica (storicamente, per esempio, nei Paesi nordici l’incidenza della cefalea è molto più alta) e anche da fattori culturali (ci fu un celebre libro della giornalista scientifica Lynn Payer che nel 1988 dimostrò notevoli differenze in seno all’Europa).

Nel caso che l’etico di Fascia C uscisse dalla farmacia, parafarmacie e Gdo garantirebbero 52 milioni di risparmi, che andrebbero a sommarsi ai risparmi generati sull’automedicazione. Ma questo, al massimo porterebbe a un risparmio nel 2012 di 97 milioni, pari all'1,86% della spesa attuale. Quindi, secondo le stime del Cermes, siamo ben lontani dalle “centinaia di milioni” di risparmi ipotizzate sui giornali.

Quanto renderebbero invece le altre liberalizzazioni? Liberalizzare la distribuzione alimentare, 8.427 milioni, quella non alimentare 2.552; liberalizzare i servizi bancari farebbe risparmiare 7.100 milioni, quelli assicurativi, 4.100. Come dicono gli avvocati, res ipsa loquitur: la cosa parla da sé. Tanto è vero che, correttamente, l’indagine chiarisce che per il cittadino i vantaggi non verrebbero in termini di risparmio, ma di maggiore accessibilità al servizio da parte dei cittadini.

Peccato che non sia stata indagato anche il giudizio dei cittadini stessi sull’attuale accessibilità delle farmacie. Ma su questo tema le indagini non mancano: da quelle condotte per conto del Ministero della Salute a quelle condotte, dalla Sda Bocconi, per la Fofi. Risultato univoco: la capillarità non sembra essere un problema.

Fonte: quotidianosanita.it, 19 dicembre 2011

Commento: come dicevo, "quanto è possibile far risparmiare [sul farmaco, ndDarimar] in modo da incidere significativamente sulla spesa complessiva media (mutuo, affitto, bollette, generi alimentari, carburante, eccetera) del singolo cittadino?"

giovedì 10 novembre 2011

Promuovere il "consumo" dei farmaci è corretto?

Quando si parla di medicinali la maggior parte delle persone, indipendentemente dal proprio titolo di studio o dal proprio livello socioeconomico, comprende, o almeno intuisce, come promuoverne il "consumo" rappresenti qualcosa di negativo, di indesiderabile, di rischioso.
Questa condivisione di pareri si basa sull'ormai assodato assunto che l'assunzione di un farmaco implichi quasi sempre controindicazioni, potenziali effetti collaterali e una serie di eventuali inconvenienti tali da indurci a utilizzare i medicinali sempre con una certa cautela e, comunque, il meno possibile.
I primi a lavarsi la bocca con esortazioni di questo tipo sono i Dottori (medici e farmacisti in testa), assieme alle proprie associazioni di categoria e, ovviamente, alle istituzioni sanitarie. Ma, lo ripeto, il discorso è talmente chiaro da risultare quasi banale per chiunque ci rifletta anche solo un istante. Nessuno, in generale, si sognerebbe mai di affermare che incentivare il consumo di medicinali, indipendentemente dal fine - men che meno qualora tale fine risultasse essere prettamente economico - sia etico, morale o anche solo "utile" dal punto di vista sanitario. Per tacere sui già citati rischi per la salute, ovviamente!

Un discorso analogo, con le dovute proporzioni, potrebbe essere applicato alla "promozione della prescrizione di medicinali" da parte dei medici. Eh, qui le cose si fanno addirittura più pericolose, perchè in gioco ci sono farmaci dal profilo tossicologico davvero letale, se non si fa attenzione (talvolta, pure se si fa attenzione...). E, di nuovo, siamo più o meno tutti d'accordo nel dire che qualsiasi tentativo di indurre il medico a prescrivere farmaci, o comunque di promuovere la prescrizione di farmaci da parte del medico, rappresenti un rischio per la salute del paziente, nonchè un fastidio per il medico stesso, dal momento che "il medico non deve soggiacere a interessi, imposizioni e suggestioni di qualsiasi natura" (Codice di deontologia medica, Art. 5) e che, comunque, "il medico ha l’obbligo dell'aggiornamento e della formazione professionale permanente, onde garantire il continuo adeguamento delle sue conoscenze e competenze al progresso clinico scientifico" (Codice di deontologia medica, Art. 16).

Giusto per completezza, tiriamo in ballo anche la mia professione. Cosa diremmo se qualcuno cercasse di incentivare o promuovere la vendita dei medicinali da parte del farmacista? Il discorso, sempre con le dovute proporzioni, è molto simile a quello appena fatto per il medico, dal momento che le due deontologie professionali hanno molto in comune: il farmacista ha il "dovere della formazione permanente e dell'aggiornamento professionale al fine di adeguare costantemente le proprie conoscenze al progresso scientifico, all'evoluzione normativa, ai mutamenti dell'organizzazione sanitaria e alla domanda di salute dei cittadini" (Codice dentologico del Farmacista, Art. 9), "il farmacista promuove l'automedicazione responsabile e scoraggia l'uso di medicinali di automedicazione quando non giustificato da esigenze terapeutiche" (Art. 10), addirittura, sempre in riferimento al discorso in questione, "costituisce grave abuso professionale incentivare, in qualsiasi forma, le prescrizioni mediche o veterinarie, anche nell'ipotesi che ciò non costituisca comparaggio" e "Costituisce grave abuso e mancanza professionale acconsentire, proporre o accettare accordi tendenti a promuovere la vendita di medicinali finalizzata ad un loro uso incongruo o eccedente le effettive necessità terapeutiche per trarne un illecito vantaggio". (Art. 14).

Insomma, promuovere la prescrizione, la fornitura, la vendita o il consumo di medicinali, comunque la si metta, rappresenta qualcosa di "brutto", di non conforme alla dentologia dei professionisti sanitari deputati alla prescrizione/vendita dei medicinali e di rischioso per la salute di chi "consuma" tali prodotti.

La realtà dei fatti

Tutto quello che avete appena letto è una favoletta! In realtà, non è vero niente!
A termini di legge, vediamo di capirci subito, il farmaco è un business e la salute pubblica è solo un ambito rotando attorno al quale tale business può fruttare introiti. E come si fa a far fruttare un business come il farmaco sfruttando la salute pubblica? Nel modo in cui abbiamo impostato il discorso qui sopra: promuovendo la prescrizione, la fornitura, la vendita o il consumo di medicinali, ovvio.
E come faccio a promuovere la prescrizione, la fornitura, la vendita o il consumo di medicinali?
Esattamente come promuovo la vendita e il consumo di qualsiasi altro prodotto: con la pubblicità, ovvio.
E, infatti, la legge è molto chiara nel definire la pubblicità dei medicinali:

"Ai fini del presente titolo si intende per «pubblicità dei medicinali» qualsiasi azione d'informazione, di ricerca della clientela o di esortazione, intesa a promuovere la prescrizione, la fornitura, la vendita o il consumo di medicinali; essa comprende in particolare quanto segue:

a) la pubblicità dei medicinali presso il pubblico;

b) la pubblicità dei medicinali presso persone autorizzate a prescriverli o a dispensarli, compresi gli aspetti seguenti:

[Omissis]

3) l'incitamento a prescrivere o a fornire medicinali mediante la concessione, l'offerta o la promessa di vantaggi pecuniari o in natura, ad eccezione di oggetti di valore intrinseco trascurabile;

[Omissis]"
(DL 219/2006, Titolo VIII, Art. 113)


La legge non solo rende lecita la pubblicità dei medicinali ma addirittura, spiegando come e semplicemente esistendo, incoraggia a "promuovere la prescrizione, la fornitura, la vendita o il consumo di medicinali" attraverso la pubblicità stessa. Ah, certo, il Titolo VIII è ricco di precisazioni sui limiti che la pubblicità, e in particolare la pubblicità al pubblico, deve osservare. Ad esempio, all'Art. 114 leggiamo che:

La pubblicità di un medicinale:

a) deve favorire l'uso razionale del medicinale, presentandolo in modo obiettivo e senza esagerarne le proprietà;

b) non può essere ingannevole.

Certo che questi hanno la faccia come il Qulo. Voglio dire: tu che leggi, pensa per un istante allo spot pubblicitario di un qualsiasi antiinfiammatorio (Aspirina, Voltaren, Moment, eccetera). Vedi i tizi protagonisti dello spot quasi in fin di vita, apparentemente incapaci persino di alzarsi dal letto a causa dei dolori e/o dell'infiammazione che li affligge. Poi arriva IL rimedio: prendi una o due compresse (nessun riferimento alla gastrolesività degli antiinfiammatori e nessuna raccomandazione ad assumerli a stomaco pieno o, eventualmente, associati a gastroprotettori) oppure ti spalmi un po' di gel, ed ecco fatto: sei come nuovo, pronto ad andare al lavoro, a fare jogging, ad andare in discoteca. Nessun problema!
E volete farmi credere che spot di questo genere "favoriscono l'uso razionale del medicinale,
presentandolo in modo obiettivo e senza esagerarne le proprietà" e "non sono ingannevoli"?!

Ecco il valore della legislazione farmaceutica in quest'ambito: garantisce la possibilità di "promuovere la prescrizione, la fornitura, la vendita o il consumo di medicinali" e, per salvare le apparenze, pone limitazioni che, di fatto, neppure vengono prese in considerazione.

Ai confini della realtà

Se la realtà dei fatti è molto distante da come la maggior parte della gente si rapporta ai rischi legati e al "promuovere la prescrizione, la fornitura, la vendita o il consumo di medicinali", i risvolti concreti e conclusivi legati alla pubblicità al pubblico dei medicinali è ai confini della realtà.
La pubblicità funziona (e chi spenderebbe le cifre richieste se non funzionasse?). Il che significa che il cittadino che assiste allo spot pubblicitario è realmente ed effettivamente indotto ad acquistare il farmaco reclamizzato. Ripeto: la pubblicità dell'Enterogermina e del Volteren Emulgel non costano 100,00 Euro, ed è per questo che il cittadino paga tali farmaci più di altrettanti integratori alimentari assai più efficaci o di medicinali equivalenti a minor costo. C'è da domandarsi per quale motivo il cittadino richieda, invece, Enterogermina e Voltaren Emulgel, giusto per mantenere questi due esempi a fronte di dozzine possibili.
Sono sicuro che ciascun lettore starà dicendo "Ah, beh, io non mi faccio di sicuro incantare!". Certo che no, è come la faccenda delle prostitute: "Ah, io con quelle no di certo!" eppure "quelle" sono sempre piene di clienti. Senza per questo mettere in dubbio il pensiero del singolo lettore, ci mancherebbe! Fatto sta che il farmaco OTC, reclamizzato in TV e non solo, non fa eccezione: i software gestionali delle farmacie sono testimoni assolutamente affidabili e, come ho accennato poco sopra, se i produttori del farmaco continuano a investire centinaia di migliaia di Euro in pubblicità, significa, in qualche modo, che essa produce un ritorno economico. Nessuno lavora in perdita, no?
Infatti, i farmaci di automedicazione più reclamizzati sono anche quelli più richiesti (e, quindi, più venduti). Per ciascuno - "xyz" - di questi farmaci ne esistono di identici a minor prezzo; oppure di simili con maggior efficacia oppure di simili con migliore tollerabilità.
Eppure, e ora parlo in base alla mia limitata e personale esperienza professionale, chi entra in farmacia chiede "xyz" senza neppure chiedere se c'è qualcosa di uguale che costa meno oppure qualcosa di simile che è più efficace o meglio tollerato. Parlo in generale, ovviamente: le eccezioni esistono ma sono decisamente poche.

Conclusioni: per il paziente

Al pari del medico, e a differenza del tatuatore, della callista, del massaggiatore, del tizio che fa il piercing, eccetera, il farmacista è un Dottore. Tutti i Farmacisti, in quanto tali, sono Dottori.
Quando vai in farmacia per un disturbo medio/lieve e occasionale, se possibile, non chiedere un farmaco in particolare. Esponi al farmacista, che è un Dottore, la tua situazione, descrivigli i tuoi sintomi, la tua condizione, i tuoi pensieri e rispondi a tutte le sue eventuali domande (non te le fa per farsi i c@zzi tuoi ma per comprendere meglio la natura del tuo problema). Lascia che il farmacista, che è un Dottore, si faccia un'idea della tua problematica: saprà probabilmente consigliarti un rimedio indicato nel tuo caso. Sarà un consiglio, non un'imposizione. Se non sei convinto, chiedigli ulteriori delucidazioni, finchè le risposte non ti avranno soddisfatto. Dopo di che, fai pure la tua scelta, in assoluta libertà, magari ringraziando il farmacista, che è un Dottore, per la consulenza gratuita che hai ricevuto.

martedì 8 novembre 2011

Farmaci. In Italia prezzi in farmacia più bassi d’Europa e pagamenti lumaca

Costano il 30% in meno. Più bassi anche i prezzi degli ospedalieri (-10%). I conti in una simulazione elaborata da Prometeia nel rapporto sull’industria farmaceutica in Europa. Che punta l'indice anche sui ritardi di pagamento delle Asl. Farmindustria: "Una zavorra per la crescita".

Le imprese operanti in Italia hanno a disposizione minori risorse finanziarie rispetto a quelle che operano negli altri Paesi europei, in relazione a condizioni operative tendenzialmente più penalizzanti: prezzi più bassi, costi più elevati, tempi di pagamento più lunghi. In particolare, sui tempi di pagamento, nell’arco temporale in cui in Italia le imprese vengono pagate una volta, in Germania, ad esempio, sono pagate circa 4 volte. Solo la Grecia registra dati peggiori dei nostri.
Una criticità denunciata da tempo dalle imprese. Per anni, infatti, il tempo medio con cui Asl e Regioni pagavano le aziende fornitrici è stato in media pari a 10 mesi e il recupero avvenuto a partire dal 2008, con tempi scesi a 224 giorni (sotto gli 8 mesi) nella media del 2010, è ormai un lontano ricorso. I tempi di attesa sono infatti tornati a crescere e nel secondo trimestre del 2011 hanno raggiunto i 236 giorni, con un trend del +9,3% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Una situazione che produce danni per 3,5 miliardi di euro di mancati investimenti in produzione, ricerca e sviluppo da parte dell`industria farmaceutica che l’industria potrebbe invece investire se le Asl e le Regioni pagassero puntualmente. E a parità di altre condizioni, basterebbe un’accelerazione dei pagamenti delle strutture pubbliche del 10% (22,4 giorni in meno) per liberare risorse pari a 400 milioni di euro, che le aziende potrebbero reinvestire nel Paese.

A certificare i danni è un’analisi di Prometeia, elaborata per conto di Farmindustria sulla base di 900 bilanci di un campione di imprese farmaceutiche operanti nell Ue 15 che registrano un valore di produzione superiore o uguale a 5 milioni di euro. Per l'Italia si tratta di 237 imprese, per una produzione farmaceutica pari a 22.459 milioni di euro (fonte Farmindustria).

L'analisi punta i riflettori anche su altri fattori che stanno mettendo in difficoltà le aziende, come le molte scadenze brevettuali (stimate, entro il 2014, nel 50% del mercato ancora in-patent), l’aumento dei costi della R&S e gli effetti delle manovre di contenimento della spesa pubblica a fronte di una crescente domanda di Salute. Tutto questo si traduce in un rallentamento del valore della produzione e in una significativa compressione della reddività (valutato attraverso il Roi), sceso, nel campione d’imprese operanti in Italia, al valore mediano di 5,6% nel 2009 dal 7,2% nel 2002 mantenendo un differenziale negativo di 1,4 punti percentuali rispetto alla media Ue15 e di ben 2 punti rispetto all’insieme degli altri Big (oltre il 30% della redditività, in tutto il periodo).
Il gap è consistente soprattutto nei confronti dei concorrenti di Francia, Germania (3 punti percentuali in meno nella media del periodo) e, nell’ultimo biennio, anche della Spagna (2,5 punti percentuali). In termini di variazione percentuale, tra il 2002 e il 2009 il Roi (Return On Investment) dell’industria farmaceutica è diminuito del 22% in Italia, del 15% negli altri Big Ue e del 12% nella media dell’Ue 15.

A condizionare negativamente le imprese del farmaco in Italia concorrono anche i prezzi dei medicinali, più bassi rispetto a tutto il resto d’Europa nel canale farmacia (-30%) e inferiori del 10% rispetto ai Big Ue per quanto riguarda i medicinali a uso ospedaliero; complessivamente la spesa procapite è inferiore del 25% rispetto alla media dei Big Ue. I prezzi in farmacia, in particolare, sono in calo ormai da 10 anni, con un -27% dal 2001 al 2011, rispetto a un’inflazione del +23%. Le differenze sono poi amplificate in termini di redditività complessiva (Roe) dalla maggiore pressione fiscale, con un gap rispetto agli altri Big Ue di 16 punti percentuali (cioè il 35% in più).

Le imprese del farmaco in Italia però resistono e lo fanno grazie all’export, che tra il 2000 e il 2010 l’export ha determinato l’85% della crescita totale della produzione farmaceutica in Italia. “Tuttavia – avverte però il rapporto – una crescita basata quasi esclusivamente sull’export, pur evidenziando la capacità competitività delle imprese, ne mette a rischio la sostenibilità, qualora gli spazi di ulteriore sviluppo all’estero dovessero ridursi”. E così le prospettive restano difficili, anche se i dati registrati per questa voce sono ancora oggi positivi: le esportazioni sono aumentate sia nel 2009, sia nel 2010, facendo salire la quota di produzione esportata al 56% e le performance all’estero delle imprese del farmaco che operano in Italia si stanno confermando positive anche nel 2011, con l’export ormai prossimo al 60% del valore della produzione.

“L’analisi di Prometeia - ha affermato il presidente di Farmindustria, Massimo Scaccabarozzi, commentando lo studio - conferma che le imprese in Italia hanno sinora dimostrato la capacità di vincere la sfida dei mercati esteri, con una propensione all’export ormai proiettata al 60%. Lo studio però evidenzia anche i vincoli del Sistema Paese, con un gap complessivo di redditività (30% in meno rispetto ai Big Ue) che deriva da prezzi più bassi, costi più elevati (ad esempio per energia, trasporti, burocrazia) e tempi di pagamento più lunghi. È una situazione che - sottolinea Scaccabarozzi - pesa in misura crescente nel processo di rilocalizzazione globale delle imprese che, a prescindere dal loro capitale, operano a livello internazionale investendo nei Paesi dove il rendimento è maggiore".
Ricordando, in particolare, lo svantaggio a carico delle imprese italiane per quanto riguarda i tempi di pagamento, il presidente di Farmindustria ha affermato che si tratta di "un credito verso lo Stato troppo a lungo immobilizzato, che risulta ancora più preoccupante se considerato alla luce dell’aumento dei tempi di pagamento da parte delle strutture pubbliche, che nel terzo trimestre 2011 sono più alti del 12% rispetto allo scorso anno, come mostra una recente rilevazione di Farmindustria. È un’ulteriore zavorra per la crescita del settore in Italia - ha concluso Scaccabarozzi -, che si riflette in minori risorse (anche ingenti come mostra lo studio) da poter investire e in minore redditività, e che quindi penalizza la capacità di attrarre nuovi investimenti 'strappandoli' alla concorrenza degli altri Sistemi Paese".

Fonte: quotidianosanita.it, 8 novembre 2011

giovedì 3 novembre 2011

2006-2010: 4 anni di risparmi sui farmaci di libera vendita. E poi?..

Qualche giorno fa riflettevo su un dato fornito dal Presidente di ANIFA (Associazione Nazionale dell'Industria Farmaceutica dell'Automedicazione) Stefano Brovelli a Nuovo Collegamento durante un'intervista dal tema "OTC e Farmacisti".
"Le persone non vogliono risparmiare un euro o cinquanta centesimi sulla salute. Del resto, in Italia si spendono solo 37 euro all’anno pro capite per l’automedicazione. I farmaci per l’automedicazione costano molto poco: non mi sembra che sia in questo campo che occorre cercare il risparmio".
L'affermazione di Brovelli, con la quale concordo dalla prima all'ultima parola, mi ha indotto a rileggere qualche rapporto Osmed sull'uso dei farmaci in Italia, più che altro per valutare i risultati della Legge 248/2006 (altrimenti nota come "Legge Bersani") intitolata "Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonchè interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale".
Stando ai dati Osmed, nel 2006 gli Italiani (secondo l'Istat, 59.131.287 di anime al 31/12/2006) hanno speso, in farmaci di libera vendita, 2.094 milioni di Euro; nel 2010 (60.340.328 al 01/01/2010, sempre secondo l'Istat) 2.060 milioni di Euro. Fatta una media di 60.000.000 di Italiani, ciascuno di essi ha speso, in farmaci di libera vendita, circa 34,90 Euro nel 2006 (cifra che ben giustifica un decreto contenente misure urgenti per salvaguardare il portafogli del cittadino) e circa 34,30 Euro nel 2010 (cifra che ben dimostra l'effettiva necessità di un simile intervento e, soprattutto, i risultati ottenuti).
Come giustamente sostiene Brovelli, "i farmaci per l’automedicazione costano molto poco: non mi sembra che sia in questo campo che occorre cercare il risparmio". Se davvero il fine è fare in modo che il cittadino spenda meno, bisognerebbe forse prima individuare gli ambiti in cui la spesa è più rilevante e, solo dopo, intevenire su di essi in modo mirato. Voglio dire... neppure 35,00 Euro di spesa annua... ma facciamo anche 37,00 come ha detto Brovelli: anche se per assurdo rendessimo interamente mutuabili i farmaci OTC e SOP, in un anno ciascuno di noi risparmierebbe 37,00 Euro, pari a circa 3,00 Euro al mese. Come ho scritto, questa è, ovviamente, un'ipotesi assurda. Realisticamente, su 37,00 Euro annui, quanto è possibile far risparmiare in modo da incidere significativamente sulla spesa complessiva media (mutuo, affitto, bollette, generi alimentari, carburante, eccetera) del singolo cittadino? E' davvero togliere dignità e "costituzionalità" al farmaco, che non è un bene commerciale di consumo bensì un bene etico di salute, e al paziente, che non è un consumatore bensì uno sventurato per il quale ricorrere al medicinale è una necessità, la strada migliore per risolvere i problemi economici degli italiani e rilanciare l'economia di un intero Paese?

E poi?... Per contro, cosa ci siamo ritrovati?
Una situazione che non ha riscontri nel mondo: il farmaco vendibile fuori dalle farmacie... ma solo a patto che "sia presente" un farmacista. Il risultato di questa anomalia si è manifestato nel corso degli ultimi anni ed è ancora attualissimo: richieste di "sanatorie" per la trasformazione di alcuni esercizi commerciali in farmacia (e ci sono politicanti che le hanno pure prese in considerazione, fra il 2010 e il 2011); richieste di maggiori riconoscimenti professionali per gli esercizi commerciali di proprietà di farmacisti (la Legge Bersani garantisce che chiunque, indipendentemente al proprio titolo di studio, possa essere titolare di una "parafarmacia" e assumere un farmacista, come proprio dipendente, per poter vendere farmaci OTC e SOP. Peccato che, all'indomani dell'entrata in vigore del DL 223/2006, nessuno abbia fatto una piega a tal proposito...), richieste di allargare il "pacchetto-farmaco" esitabile negli esercizi commerciali anche ai medicinali a carico del cittadino subordinati a prescrizione medica (3.057 milioni procapite/anno nel 2006, 3.114 nel 2010, pari rispettivamente a 50,95 e 51.90 Euro/cranio. Qui magari riusciamo a far risparmiare addirittura più di 1.00 Euro all'anno a ciascun Italiano, sempre che si elimini il prezzo fisso e stabilito arbitrariamente dai titolari dell'AIC. Così il "diritto alla salute", paritario per ciascun cittadino secondo l'Art. 32 della Costituzione, diverrà ancor più impari), serie denuncie della situazione che è venuta a crearsi, un sempre maggiore conflitto fra colleghi farmacisti che lamentano a gran voce i "soprusi" (arroganza, ignoranza, incompetenza, scarsa professionalità, eccetera) di alcuni, non meglio identificati, titolari di farmacia e gli "illeciti" che vengono compiuti in alcune, non meglio identificate, farmacie (medicinali etici dispensati senza ricetta, non laureati che svolgono le mansioni del farmacista, eccetera) ma che non propongono alcunchè per ovviare a tali situazioni indesiderabili, se non auspicare per sè una "pseudo-farmacia" la quale - senza un'adeguata revisione dell'attuale sistema di "controlli & sanzioni" - sarà identica (stessi potenziali "soprusi", siamo tutti esseri umani; stessi potenziali "illeciti", sono tutte aziende) alle altre realtà tanto disprezzate.

Previsioni per il futuro? In base alla mia personale e limitata esperienza, il mercato e gli aspetti economici tendono sempre a prevalere sulla Salute e sugli aspetti sanitari.

lunedì 31 ottobre 2011

Romani: liberalizzare le farmacie? Non è misura per la crescita

Liberalizzare il servizio farmaceutico potrebbe avere come conseguenza la concentrazione della maggior parte degli esercizi nei grandi centri urbani, come Milano o Roma, lasciando sguarniti luoghi più scarsamente popolati o disagiati. E d'altra parte il provvedimento sarebbe ben lontano dall'essere una misura per la crescita. Parola del ministro per lo Sviluppo economico, Paolo Romani, coordinatore per altro dei lavori sul decreto sviluppo, che settimana scorsa è intervenuto alla trasmissione televisiva Porta a Porta, dedicata alle misure per la crescita. L'occasione dell'intervento, secondo quanto riporta Federfarma sul suo sito, è stata fornita da un servizio giornalistico che ha preso spunto dall'articolo di Michele Ainis sul Corriere della Sera del 20 ottobre sull'Italia delle corporazioni. Romani avrebbe risposto all'affermazione secondo cui in Italia non si riescono a portare avanti riforme di sistema perché vengono sempre bloccate dalle lobby. E tra gli esempi proposti dal conduttore di Rai 1 gli ordini professionali, i notai, gli avvocati e anche le farmacie. Romani ha però ribadito che toccare il servizio farmaceutico non costituirebbe un processo di liberalizzazione e che non è questa una vera misura per la crescita di cui l'Italia ha bisogno.

Fonte: Farmacista33, 31 ottobre 2011

Fda: contraccettivi orali di nuova generazione, più rischio di Tev

Dopo la pubblicazione sul British medical journal dei risultati di uno studio danese secondo i quali (vedi farmacista33 di giovedì 27 ottobre) con l'assunzione di contraccettivi contenenti desogestrel, gestodene, o drospirenone raddoppia il rischio di coaguli sanguigni, rispetto all'uso del più datato levonorgestrel, anche l'Fda torna sul tema.
L'Agenzia regolatoria statunitense, infatti, ha rivisto la storia medica di oltre 800.000 donne che tra il 2001 e il 2007 assumevano contraccettivi orali di vario tipo. Dalla revisione emerge un incremento del 74% del rischio di tromboembolismo venoso (Tev) con le combinazioni ormonali più nuove (drospirenone/etinilestradiolo come Yaz e l'analogo con supplemento di folati Beyaz, entrambi di Bayer) rispetto a quello registrato con medicinali a minor contenuto estrogenico. Il rischio sarebbe più elevato nei primi 3 mesi d'assunzione e per chi prolunga la terapia fino a 6-12 mesi. Si tratta di conclusioni ancora da approfondire e confermare e, infatti, l'Fda ha in programma di ridiscutere la questione con un panel di esperti il prossimo 8 dicembre. «Siamo convinti che il rischio potenziale complessivo che Yaz o Beyaz apportano ai pazienti sia esattamente comparabile a quello degli altri contraccettivi orali» ha commentato Joerg Reinhardt, a capo della divisione HealthCare di Bayer. Astrid Kranz portavoce di Bayer ha aggiunto che l'azienda presenterà le sue ulteriori considerazioni a dicembre nell'incontro con l'Fda.

Fonte: Farmacista33, 31 ottobre 2011

Commento: come accade nella maggior parte dei casi in Farmacologia, "nuovo" non significa necessariamente "più sicuro". Significa solo "meno conosciuto".

mercoledì 12 ottobre 2011

Integratori vitaminici possono essere dannosi se non necessari

(AGI) - Washington, 11 ott - Spesso gli integratori vitaminici non sono necessari e, a volte, rischiano anche di essere dannosi. Uno studio condotto da un team di ricercatori americani e finlandesi, appena pubblicato sugli Archives of Internal Medicine, ha mostrato che l'uso di integratori nella popolazione americana e' in molti casi ingiustificato e che alcuni tipi, tra cui quelli a base di ferro, possono addirittura facilitare un piu' alto rischio di morte nelle donne anziane. Partendo dalla considerazione che la popolazione americana gode mediamente di una nutrizione piu' che sufficiente, l'ipotesi della ricerca condotta dal team dell'Universita' della Finlandia orientale e dell'Universita' del Minnesota era quella di verificare se le vitamine assunte da circa la meta' degli statunitensi (per una spesa di circa 20 miliardi di dollari) dessero effettivamente degli effetti benefici. I risultati della ricerca hanno dimostrato che gli integratori non hanno migliorato in modo sensibile la salute di chi li assumeva. ''Sulla base delle prove esistenti, abbiamo riscontrato poche giustificazioni per l'uso generale e capillare degli integratori alimentari'', hanno scritto gli autori dello studio. ''Abbiamo inoltre scoperto si legge nell'articolo che molte vitamine comunemente utilizzate nella dieta associata a integratori minerali, tra cui multivitaminici, vitamine B6 e acido folico, cosi' come i minerali di ferro, magnesio, zinco e rame, erano associati a un maggior rischio di mortalita' totale''. I ricercatori statunitensi e finlandesi hanno esaminato i dati di uno studio sulla salute femminile realizzato nello Iowa, che includevano i sondaggi compilati da 38.772 donne con un'eta' media di 62 anni. In genere, chi ha assunto integratori vitaminici ha mostrato uno stile di vita sano, ma in alcuni casi ha mostrato anche una piu' alta incidenza di morte rispetto a chi non usava integratori. ''Di particolare interesse hanno sottolineato gli autori sono stati gli integratori di ferro, fortemente associati a un aumentato rischio di mortalita'''. D'altra parte, ''un supplemento di calcio si e' sempre rivelato inversamente proporzionale al tasso di mortalita' totale''. Gli autori hanno comunque messo in evidenza di non poter escludere la possibilita' che la ragione del tasso di mortalita' piu' elevato avrebbe potuto essere causata da condizioni di base, in virtu' delle quali si sarebbero resi necessari gli integratori. Nel frattempo, tuttavia, i medici hanno esortato i pazienti a considerare i rischi di assunzione di integratori. ''Pensiamo che la regola 'piu' ce ne sono e meglio' e'' sia sbagliata'', hanno detto Goran Bjelakovic dell'Universita' di Nis in Serbia, e Cristiana Gluud della Copenhagen University Hospital in Danimarca, in un commento di accompagnamento all'articolo. Questi risultati ''si aggiungono alla crescente evidenza secondo cui alcuni supplementi antiossidanti, come la vitamina E, la vitamina A e il beta-carotene, possono essere dannosi '', hanno concluso. (AGI) .

Fonte: Federfarma.it, Edicola, Agi Sanità News, 11/10/20114

L'articolo qui sopra citato riflette quasi al 100% quello che l'attuale legislazione - Decreto Legislativo 169/2004, che recepisce la corrispondente direttiva europea 2002/46/CE - identifica come "integratore":

  • "L'etichettatura, la presentazione e la pubblicità non attribuiscono agli integratori alimentari proprietà terapeutiche nè capacità di prevenzione o cura delle malattie umane ne' fanno altrimenti riferimento a simili proprietà" (Art. 6, Comma 2).
  • "Nell'etichettatura, nella presentazione e nella pubblicità degli integratori alimentari non figurano diciture che affermino o sottintendano che una dieta equilibrata e variata non è generalmente in grado di apportare le sostanze nutritive in quantità sufficienti" (Art. 6, Comma 3).
  • "Nel caso di integratori propagandati in qualunque modo come coadiuvanti di regimi dietetici ipocalorici volti alla riduzione del peso, non e' consentito alcun riferimento ai tempi o alla quantità di perdita di peso conseguenti al loro impiego" (Art. 7, Comma 1).
  • "La pubblicità dei prodotti contenenti come ingredienti piante o altre sostanze comunque naturali non deve indurre a far credere che solo per effetto di tale derivazione non vi sia il rischio di incorrere in effetti collaterali indesiderati" (Art. 7, Comma 4).
L'"integratore" è quindi un prodotto che trova due principali indicazioni, sebbene "indicazione" sia, rigorosamente parlando, un termine improprio:

  1. La carenza dei propri principi attivi.
  2. L'aumentato fabbisogno dei propri principi attivi.

Queste poche informazioni sono sufficienti a mettere in luce come gli integratori siano ai primi posti fra i prodotti di cui il cittadino abusa più di frequente, complici anche i media che diffondono pubblicità fuorvianti circa i reali vantaggi che, limitatamente a determinate situazioni, gli integratori possono arrecare all'organismo. Si noti, a tal proposito, con quale frequenza e rilevanza le disposizioni legislative di cui sopra, in particolare quelle che ho evidenziato, siano infrante impunemente.

Un organismo sano, in condizioni "normali", non avrebbe bisogno di alcun integratore: le sostanze contenute negli integratori si trovano infatti di norma facilmente nel cibo, oppure sono prodotte fisiologicamente dall'organismo stesso, oppure ancora sortiscono sull'organismo effetti che sono normalmente svolti appunto da molecole assunte con la dieta o prodotte dall'organismo.
Dal punto di vista commerciale l'integratore NON è un farmaco. Dal punto di vista legislativo, invece, l'integratore è un medicinale a tutti gli effetti: NON ESISTONO, d'altra parte, integratori innocui, privi di controindicazioni o esenti da potenziali effetti collaterali. Per non parlare delle eventuali interazioni farmacologiche.
Assumere un integratore ha senso ESCLUSIVAMENTE quando, per qualsiasi motivo, l'organismo sia carente o abbisogni delle sostanze contenute nell'integratore stesso.
In TUTTI gli altri casi, assumere un integratore è quantomeno inutile. In alcune situazioni può addirittura risultare dannoso (da notare come NESSUNA pubblicità riporti mai gli eventuali rischi associati all'impiego scorretto di un integratore, per quanto ben documentati essi possano essere: chissà perchè... ).

Mi permetto di riportare un esempio (a fronte di decine possibili): gli integratori completi di sali minerali e vitamine (es.: Multicentrum). Quando la pubblicità che i media diffondono si riferisce a prodotti di questo genere, il messaggio è all'incirca: "Ti senti stanco, spossato, privo di energie? Non temere: assumi questo prodotto e ti sembrerà di rinascere!".
Ebbene, qualche dato di fatto:

1- Non c'è alcun ingrediente, in tali prodotti, che non possa essere assunto con un'alimentazione ben bilanciata ed equilibrata.

2- Non c'è alcun ingrediente, in tali prodotti, di cui un organismo "normale" abbia il benchè minimo bisogno aggiuntivo.

3- Non c'è alcun motivo ragionevole per supporre che un eventuale stato di "stanchezza" debba essere imputabile alla carenza degli ingredienti presenti nell'integratore.

4- Non c'è alcun motivo ragionevole per supporre che un'eventuale carenza di uno o più ingredienti presenti negli integratori debba implicare anche la carenza di tutti gli altri in esso presenti.

Questi sono dati di fatto. Ora un'opinione mia personale:

5- Chi punta a vendere appoggiandosi a simili messaggi pubblicitari, e chi fa da tramite per tali messaggi, dovrebbe essere semplicemente denunciato, inquisito e direttamente sanzionato.

Il risultato della diffusione di messaggi di tal genere l'ho esposto poco sopra: abuso di integratori da parte del cittadino, che si fida (e qui emergono l'esigenza e l'importanza di adeguate campagne informative rivolte al cittadino stesso da parte delle istituzioni sanitarie...) del messaggio pubblicitario.
Il cittadino si sente stanco e compra il Multicentrum; il cittadino ha i crampi notturni e compra il Polase; il cittadino ha il figlio che rende poco a scuola e gli dà l'Acutil Fosforo. Eccetera.

Intendiamoci: i prodotti che quello che ho nominato fino adesso sono eccellenti (non buoni: eccellenti) di per sè, ma sono proposti, e troppo spesso acquistati, per motivi che non ne rappresentano ragionevoli indicazioni.

Tutto questo discorso vale, in particolare, per i prodotti che contengono vitamine e/o sali minerali, ma non solo: vale anche per tutti quei prodotti che pretendono di sopperire in modo aspecifico a una qualche esigenza del nostro organismo: prima di assumere un integratore di ferro (è un esempio di sale minerale), bisognerebbe accertarsi di essere effettivamente in carenza di ferro o di trovarsi in una condizione di aumentato fabbisogno; prima di assumere un integratore di acido folico (è un esempio di vitamina), bisognerebbe accertarsi di essere effettivamente in carenza di acido folico o di trovarsi in una condizione di aumentato fabbisogno. Eccetera.

Ha senso assumere una qualsiasi sostanza SE NE ABBIAMO UN BISOGNO FONDATO. In tutti gli altri casi è una perdita di denaro (speso per acquistare la sostanza. E' importante, perchè poi tutta una serie di soggetti si lamenta che "c'è crisi", che il cittadino medio non arriva a fine mese, e che scontare di qualche frazione di Euro i vari prodotti serve a produrre un significativo risparmio per gli italiani...) oltre che un ulteriore rischio per la salute (qualora la sostanza in questione abbia controindicazioni, presenti interazioni con altre sostanze o abbia potenziali effetti collaterali. Per tacere sui contenuti dell'articolo riportato all'inizio di questa pagina).

mercoledì 28 settembre 2011

Fascia C alle parafarmacie, subito!!!

"Fascia C alle parafarmacie, subito!!!"
E' una sorta di slogan che, da qualche mese a questa parte, si legge su alcuni forum telematici di categoria. Talvolta, ma non sempre, chi lo scrive è un utente "anonimo", cioè privo di un'indentià reale e confermata; purtroppo, in non pochi altri casi, chi lo scrive non esita a firmarsi con nome, cognome e/o altre generalità in modo da certificare il proprio titolo di studio e la propria abilitazione all'esercizio della Professione: Farmacista.
Scrivo "purtroppo" perchè la situazione in oggetto non è troppo distante da quella del tizio che, calatesi braghe e mutande, e appoggiati i testicoli su un tavolo, non esitò a martellarseli con gran foga pur di richiamare l'attenzione di un pubblico inconsapevole e inconsapevolmente curioso.
Voglio dire: pazienza per il cittadino medio, per il politicante di turno o per il giornalaro che riporta passivamente notizie di terze parti, tutta gente che "fascia C" neppure sa cosa significhi. E giustamente: "fascia C" è un termine che riguarda chi lavora quotidianamente a contatto con i medicinali e, contemporaneamente, a contatto col paziente. Se non si appartiene a questa categoria, non si hanno probabilmente le competenze "tecniche" per sapere cosa significhi "fascia C" ma, siccome in questo Paese "democratico" tutti hanno il diritto di esprimersi su tutto, persino - anzi, soprattutto - sugli argomenti che non si conoscono, perdoniamo il cittadino medio, perdoniamo il politicante di turno e perdoniamo il giornalaro che riporta passivamente notizie di terze parti.
Chi, invece, mi lascia qualche seria (ma neppure troppo...) perplessità è il collega, farmacista, che non esita a spararla e, anzi, sembra andarne quasi orgoglioso: "Fascia C alle parafarmacie, subito!!!"
Vabbè, vediamo anzitutto cosa sia, questa benedetta "fascia C". Sia chiaro fin d'ora come qualsiasi farmacista, anche il meno competente, il più fancazzista o quello che "ma chissà perchè ho scelto questo c@zzo di professione!?", non possa non sapere cosa sia, esattamente, la "fascia C". Sarebbe come se un falegname non sapesse cosa sia il "legno" o come un fisico del CERN non sapesse cosa sia un "ciclotrone" o come Bersani non sapesse cosa sia una "COOP".
"Fascia C" indica una classificazione dei medicinali, risalente alla Legge 537/1993, in base all'"importanza terapeutica", chiamiamola così per capirci, attribuita dalla Commissione unica del farmaco ai medicinali stessi. A quell'epoca i medicinali furono divisi in tre fascie (A: farmaci essenziali e farmaci per malattie croniche; B: farmaci, diversi da quelli di cui alla lettera a), di rilevante interesse terapeutico; C): altri farmaci privi delle caratteristiche indicate alle lettere a) e b) ad eccezione dei farmaci non soggetti a ricetta con accesso alla pubblicità al pubblico). Sembra solo uno squallido gioco di parole ma, sempre a quell'epoca, la distinzione in oggetto separava nettamente i farmaci OTC (di libera vendita e con accesso alla pubblicità al pubblico) dai farmaci SOP (di libera vendita ma privi di accesso alla pubblcità al pubblico). Successivamente (Legge 388/2000), la fascia B è stata eliminata e riassorbita in parte nella fascia A e in parte nella fascia C (e già qui ci sarebbe da chiedersi come sia possibile che farmaci considerati fino a qualche anno prima "di rilevante interesse terapeutico" siano finiti in fascia C; oppure che farmaci considerati fino a qualche anno prima "non essenziali"/"non per malattie croniche" siano finiti in fascia A).
Poi (Legge 311/2004, Art. 166) è stata introdotta la "fascia C-bis", nella quale sono stati esplicitamente inclusi tutti i medicinali di automedicazione, o OTC (per i quali sono autorizzati il self-service e la pubblicità al pubblico), distinguendoli così ulteriormente dai SOP (senza obbligo di prescrizione), i quali rimasero quindi all'interno della "fascia C" che, da allora, comprende medicinali di libera vendita (farmaco SOP, per il quale non è autorizzata la pubblicità al pubblico nè il self-service) e medicinali subordinati a prescrizione medica (farmaco etico).
Conclusione: "fascia C" significa, oggettivamente, "tutti i farmaci a carico del cittadino per i quali sia vietata la pubblicità al pubblico".
Ora vediamo dove casca l'asino. Se io scrivo "Fascia C alle parafarmacie, subito!!!" significa una delle seguenti ipotesi:

1- Non so cosa sia la fascia C. "Fascia C" comprende SOP ed etico (subordinato a prescrizione medica). I SOP, che rappresentano una fetta della "fascia C", sono vendibili nelle parafarmacie già dal 2006. La "Tachipirina 500", per intenderci, è un farmaco di "fascia C".

2- So benissimo cosa sia la fascia C (e ci mancherebbe altro, se davvero sono un farmacista!) ma intendo distorcere volutamente il messaggio approfittando dell'ignoranza - pienamente giustificabile - del pubblico non addetto ai lavori.
Eddai, che c@zzo vuoi che ne sappia, il cittadino medio, di cos'è realmente la "fascia C"!?
Io faccio la vittima, dico che la "fascia C" è preclusa alle parafarmacie, mi lamento, e senza neppure dover spiegare cosa la "fascia C" sia esattamente, magari riesco a ottenere l'appoggio e la considerazione del pubblico.

3- Boh? Non mi vengono in mente altre ipotesi. Ah, beh... ci sarebbe quest'ultima ma è talmente triste che la riporto giusto per completezza.
So benissimo cosa sia la fascia C (e ci mancherebbe altro, se davvero sono un farmacista!) ma parlo semplicemente di "fascia C" per comodità. Dai, non vogliamo mica perdere tempo a spiegare cosa sia esattamente la "fascia C" ogni volta?! E' ovvio che per "fascia C" si intende il farmaco a pagamento su ricetta, su!

Ecco, questa è, a mio avviso, la situazione peggiore: "E' ovvio che..." è il colpo di spugna che si dà alla propria Coscienza per metterla a tacere pur sapendo di scrivere qualcosa che, per chi legge e non è nella nostra testa, di "ovvio" ha ben poco, tranne la nostra personale e pedissequa ricerca della massima resa - fottere il lettore privo della cultura necessaria a destreggiarsi fra le ovvietà - col minimo sforzo - spacciare per ovvietà quella che, semplicemente, è disinformazione voluta.
Tre casi e nessuno di questi mi sembra degno di un farmacista competente.
Eppure, in genere, "Fascia C alle parafarmacie, subito!!!" è scritto dalle stesse persone secondo cui tutti i farmacisti sono uguali, perchè tutti hanno lo stesso titolo di studio, hanno superato lo stesso esame di stato e sono iscritti allo stesso ordine professionale. E questo è assolutamente vero. All'inizio. Mi laureo, supero l'esame di stato e mi iscrivo all'ordine professionale. Questo, ragazzi miei, è solo l'inizio di una carriera professionale. Può anche darsi che in quell'istante siamo tutti uguali (ovviamente sono c@zzate) ma, successivamente, già dal giorno dopo, tutto comincia a galoppare: la ricerca scientifica, la legislazione farmaceutica, la farmacovigilanza, le esigenze del paziente, e via così. E chi mi - a me cittadino/paziente - certifica che tutti i farmacisti siano "uguali", e cioè che si mantengano tutti costantemente preparati in materia di ricerca scientifica, legislazione farmaceutica, farmacovigilanza, esigenze del paziente, eccetera? Nessuno. Ma si spera sempre che la maggioranza dei farmacisti sia rappresentata da professionisti seri, coscienziosi, competenti e aggiornati.
Infatti, grazie al Cielo, "Fascia C alle parafarmacie, subito!!!" lo grida solo una minoranza.

mercoledì 6 luglio 2011

Anziani: allarme sulle reazioni avverse

40mila morti, 3,4 milioni di visite al pronto soccorso e oltre 1,7 milioni di giornate di degenza l'anno. Questa la stima dei danni legati alle reazioni avverse da farmaci (Adr), effettuata da Federanziani, attraverso il centro studi Sanità in cifre, che ha passato al settaccio 95 studi clinici pubblicati negli Usa e ha comparato i numeri americani, demografici ed economici, con popolazione e costi sanitari italiani. A emergere una vera e propria «strage silenziosa» che «costa 23 milioni di prestazioni medico-sanitarie non necessarie, 630 mila giorni di prolungamento del tempo di degenza che potevano essere evitati, e, tra Italia e America, una stima di 10 miliardi di euro di spesa in più». Una situazione preoccupante per Federanziani, che denuncia come il fenomeno colpisca in prevalenza gli anziani, sottoposti spesso a pluriterapie: in una situazione in cui le Adr rappresentano la quarta causa di morte negli Usa, non è accettabile che in Italia manchino studi approfonditi sulla materia. Anche perché, la stima effettuata dal centro studi può mostrare un indice di scostamento rispetto alla realtà americana di +/-20%. Per di più, continua Federanziani, «in Italia non si riscontrano dati significativi su ritiri dal commercio per ragioni di sicurezza, come invece avviene in Francia, Germania e Gran Bretagna». Immediata la risposta dell'Aifa, che «pur apprezzando l'intento dell'Associazione di sollevare una problematica importante come la Farmacovigilanza, da tempo all'attenzione delle autorità, rileva un profondo difetto metodologico. L'America non ha né un Servizio sanitario nazionale, né una rete territoriale di Farmacovigilanza, né un sistema capillare di tracciatura del farmaco, elementi di grande garanzia per il cittadino italiano. E l'Italia, solo negli ultimi dieci anni, ha ritirato 39 farmaci». L'Aifa, continua la nota, «ha anche intrapreso per prima un programma di sorveglianza post marketing per gli anziani».


Fonte: Farmacista33, 6 luglio 2011

lunedì 4 luglio 2011

Psicosi più precoce per chi fa uso di cannabis

Secondo un’accurata metanalisi pubblicata sugli Archives of General Psychiatry l’uso di sostanze psicoattive, e di cannabis in particolare, si associa allo sviluppo anticipato di 2-3 anni di disturbi psicotici.

L’uso di cannabis è stato più volte messo in rapporto con psicosi e altri disturbi psichiatrici, rapporto che per alcune ricerche sarebbe causale. Ci sono state anche osservazioni di un’associazione tra la sostanza e un’età d’insorgenza più precoce di queste forme, specie per la schizofrenia.
Sul nesso di causalità per lo sviluppo più precoce di tali disturbi, però, non tutti i ricercatori concordano. Un’accurata metanalisi di numerosi studi sull’argomento, che tiene conto delle varie difformità metodologiche e relative ai soggetti considerati, porta ora chiari elementi a sostegno di questa ipotesi. L’uso di cannabis sembra essere fortemente connesso con manifestazioni psicotiche anticipate e con sviluppo di psicosi, almeno in alcuni soggetti.
Non sono pochi i limiti dovuti alle differenze tra gli studi condotti, valutano gli autori di questa metanalisi, che sono ricorsi ai principali database dei relativi trial in lingua inglese: da variabili demografiche, a uso di altre sostanze, a trattamenti in atto, eccetera. Si sono individuati 443 studi dei quali 83 rispondevano ai criteri d’inclusione, per un totale di 8167 pazienti psicotici utilizzatori di sostanze psicoattive e 14.352 non utilizzatori.
L’età d‘esordio della psicosi negli utilizzatori di cannabis è apparsa inferiore di 2,7 anni rispetto ai non utilizzatori; nei pazienti con uso di sostanze di vario tipo l’anticipo è di 2 anni. Per quanto concerne l’alcol, invece, non è risultato un anticipo significativo.
Complessivamente, negli utilizzatori di sostanze l’età è risultata anticipata di 1,7 anni rispetto al gruppo controllo.
Si è messo in luce anche un esordio di psicosi più precoce nelle femmine che nei maschi (-3,4 anni contro -1,87), risultato però non significativo con l’analisi di meta-regressione. L’anticipo è stato più marcato tra chi aveva un utilizzo più pesante e continuativo di sostanze rispetto a chi faceva un uso più soft o aveva smesso (-2,72 anni contro -2,07) ma anche in questo caso senza significatività statistica.
Nella conclusione degli autori della metanalisi la più alta proporzione di pazienti psicotici utilizzatori di cannabis tra quanti usavano sostanze conferma una sua associazione con uno sviluppo più precoce di queste forme psichiatriche. Riguardo alla schizofrenia si era ipotizzato che la cannabis fosse un fattore causale, o favorente in soggetti vulnerabili o esacerbante, o che fosse più probabile che gli schizofrenici usassero tale sostanza. Da questo studio esce rafforzata la tesi che la cannabis precipiti la schizofrenia e gli altri disturbi psichiatrici, forse per un’interazione di fattori genetici e ambientali o interferenze cerebrali soprattutto in una delicata fase di maturazione come nell’adolescenza.
Non c’è supporto all’ipotesi che sviluppi psicosi precoci chi è più portato all’uso di tutte le sostanze, dato che l’associazione non emerge per l’alcol da solo, anche se resta da approfondire l’eventuale propensione di questi pazienti per certe sostanze, come il fumo. Quanto ai meccanismi, gli autori rilevano che rimane da chiarire se la cannabis e le altre sostanze abbiano un effetto neurotossico diretto, attraverso un’alterazione dell’attività della dopamina o modificazioni relative ad altri neurotrasmettitori, così come a quale livello gli effetti siano reversibili. In ogni caso, i risultati dell’analisi sostengono che riducendo la cannabis si possa ritardare o, al limite, prevenire alcuni casi di psicosi. Tuttavia, anche nelle persone che svilupperebbero comunque la psicosi, un ritardo di due-tre anni sarebbe importante in particolare nella transizione dalla tarda adolescenza all’età giovane-adulta, diminuendo sul lungo periodo le conseguenze del disturbo psicotico.


Fonte: Il Farmacista Online, 4 luglio 2011

martedì 7 giugno 2011

In farmacia: lo scarico fiscale delle spese sanitarie

Per informazioni sulle tipologie di prodotti che è possibile portare in detrazione/deduzione, vi rimando alla raccolta che abbiamo effettuato con gli amici del Movimento Spontaneo Farmacisti Italiani.
In questa sede, dopo un riassunto schematico delle principali categorie merceologiche interessate, affronterò invece le più comuni situazioni che si presentano in farmacia e fornirò alcune precisazioni e suggerimenti su come comportarvi per non equivocare il ruolo del farmacista e, soprattutto, per tutelare il vostro diritto alla detrazione/deduzione di ciò che può effettivamente essere detratto/dedotto secondo l'attuale normativa.

Cosa è possibile detrarre/dedurre?

  • Farmaci. In genere sostengo che generalizzare sia sempre sbagliato ma, in questo caso, credo non ci sia nulla di male: TUTTI i farmaci sono detraibili/deducibili. Farmaci su ricetta medica, farmaci di automedicazione, farmaci veterinari, prodotti omeopatici, eccetera, sono tutti prodotti detraibili/deducibili. Se qualcuno sta pensando a qualche possibile eccezione, temo possa rassegnarsi subito: non ce ne sono.
  • Dispositivi medici. I dispositivi medici sono detraibili SOLO SE "vengono marcati “CE” dal fabbricante in base alle direttive europee di settore". Quindi bisogna che sulla confezione sia riportato il marchio "CE", solitamente seguito da un codice numerico.
  • Varie ed eventuali. E' possibile detrarre/dedurre la spesa per prodotti non meglio identificati qualora la loro funzione sia RICONDUCIBILE al concetto di "dispositivo medico". Non fate quella faccia: l'ha detto l'Agenzia delle Entrate! Ok, ha omesso di precisare "come fare" per accertarsi che la funzione del prodotto acquistato sia effettivamente riconducibile al concetto di "dispositivo medico" ma, in fondo, si tratta di dettagli irrilevanti, suvvia...

Per detrarre/dedurre la spesa, occorre lo "scontrino fiscale parlante muto", cioè lo scontrino fiscale (che la farmacia deve per forza di cose emettere, altrimenti è nero), contenente la natura del prodotto acquistato (es.: farmaco, dispositivo medico, eccetera), la qualità del prodotto acquistato (di qui il termine "parlante") che, tuttavia, non può essere esplicitata dal nome commerciale (di qui il termine "muto") bensì espressa tramite il codice numerico che identifica il prodotto (questioni di privacy, voi comprendete...) e la quantità di confezioni acquistate. Sullo scontrino deve inoltre comparire, STAMPATO, il codice fiscale di chi detrae/deduce la spesa (o di soggetti terzi, se a carico dello stesso).
Ripeto: per ulteriori dettagli e approfondimenti sull'argomento, il link da seguire è la pagina del M.S.F.I. dedicata a "Farmaci & detrazioni".

Cosa succede in farmacia?

Tante cose ma, ai fini del discorso in questione, quella più importante è l'emissione dello scontrino fiscale. E' con lo scontrino fiscale che il cittadino potrà detrarre/dedurre la spesa effettuata ed è quindi importante... anzi, INDISPENSABILE... che lo scontrino fiscale contenga tutti i formalismi richiesti dall'attuale normativa.
Ora, cerchiamo di essere pragmatici: i misuratori fiscali presenti nelle farmacie sono "programmati", accuratamente e a carico dell'azienda, per emettere, in automatico, scontrini fiscali che rispondano a tutti i requisiti previsti dalla legislazione. E' la legislazione stessa a richiedere che lo scontrino emesso sia in linea con la normativa vigente e, per forza di cose, le farmacie si sono dovute adeguare. Certo, volendo essere rigorosi si può far notare come la normativa debba essere applicata solo ai prodotti detraibili/deducibili e solo qualora il cittadino intenda effettivamente detrarre/dedurre la spesa ma, salvo casi particolari, sarebbe decisamente più scomodo impostare i misuratori fiscali perchè rilascino scontrini "vintage" in automatico e dover quindi intervenire manualmente, ogni singola volta, per modificare la stampa ai fini della detrazione/deduzione.
Insomma, della maggior parte delle beghe burocratiche imposte dalla normativa, se ne occupa la farmacia. Al cittadino rimane, sempre per legge, il gravoso onere di informare il farmacista che intende detrarre/dedurre la spesa e, quindi, di fornirgli il proprio codice fiscale in modo che il farmacista stesso possa stamparlo sullo scontrino fiscale. Il modo ottimale per fornire al farmacista il proprio codice fiscale è esibire la propria tessera sanitaria (quella che sembra una carta di credito, riportata nell'immagine in alto a sinistra): grazie al codice a barre presente sulla tessera e allo strumento di lettura ottica presente in farmacia, al farmacista basta un "bip" per raccogliere il codice sul video. Senza la tessera sanitaria è comunque possibile ottenere lo stesso risultato (potete presentare un altro documento, dettare al farmacista il codice, eccetera): semplicemente ci vuole più tempo, perchè il farmacista dovrà digitare sulla tastiera ogni singolo carattere alfanumerico, e non siamo sicuri che il codice così digitato risulterà corretto (vuoi per errori di digitazione, vuoi perchè, in alcuni casi, su documenti non recenti il codice fiscale può risultare diverso da quello reale).

Scendiamo nel dettaglio

I concetti da farsi entrare in testa sono due:

  • Al farmacista non compete in alcun modo, nè sotto alcun punto di vista, chiedere al cittadino se egli sia interessato a detrarre/dedurre la spesa. Il farmacista ha il compito di tutelare la salute del cittadino. La materia fiscale esula dai suoi ruoli. Che il cittadino detragga/deduca la spesa, oppure che neppure faccia la denuncia dei redditi, al farmacista non cambia niente e, dal punto di vista strettamente professionale, non potrebbe fregargliene di meno.
  • E' il cittadino a dover informare il farmacista o chi per lui di voler detrarre/dedurre la spesa e a metterlo nelle condizioni (esibendo la tessera sanitaria, un documento sul quale figuri il codice fiscale, dettando il codice fiscale stesso, eccetera) di poter stampare il codice fiscale sullo scontrino. E' interesse del cittadino poter detrarre/dedurre la spesa: sono soldi suoi e lo "scontrino parlante" è una realtà, a tutti gli effetti, dal 1 gennaio 2008 (siamo nel 2011...).
Ciononostante, molti farmacisti si sono adattati, prima di battere lo scontrino fiscale, a ricordare comunque al cittadino che, per detrarre/dedurre le spese, occorre il codice fiscale stampato sullo scontrino stesso. Ho una collega che, in genere, si informa: "Lei scarica le spese sanitarie?"; io, di solito, mi limito a informare che il prodotto acquistato è detraibile (in molti casi il cittadino risponde di sì ma non ha alcuna reazione, quindi ricordo, a volte con un certo imbarazzo, che serve il codice fiscale); un'altra collega, invece, non esita ad arrivare dritta al punto: "Ha la tessera sanitaria per detrarre la spesa?".
E' una gentilezza che il farmacista fa per venire incontro al cittadino, favorendolo, e per evitare spiacevoli e squallide situazioni dopo, non appena il misuratore fiscale sputa fuori lo scontrino: "Era detraibile?!". Una gentilezza che, quando ci si ricorda, si fa anche volentieri, sperando magari in un "grazie per avermelo ricordato!" che, tuttavia, non sempre arriva (forse - è solo una congettura - perchè, nel clima di assistenzialismo che vige nel nostro Paese, si dà per scontato che anche questo sia un dovere intrinseco di chi serve il cliente pagante). Una gentilezza di cui, purtroppo, proprio perchè estranea ai doveri e alle competenze del farmacista, talvolta ci si dimentica, io per primo mio malgrado: il farmacista DEVE controllare che il medico abbia compilato correttamente la prescrizione, DEVE informare il cittadino dell'esistenza di farmaci equivalenti a minor costo, DEVE informare il cittadino sulle corrette modalità di utilizzo dei farmaci che consiglia, DEVE rispondere a eventuali domande del cittadino, DEVE fare un sacco di altre cose ma - per adesso, domani si vedrà... - NON deve, necessariamente, entrare nel merito delle faccende fiscali del cittadino. La stampa del codice fiscale: a volte se ne dimentica il farmacista esattamente come se ne dimentica il cittadino stesso, L'unica differenza è che il cittadino aveva tutto l'interesse a ricordarsi mentre il farmacista stava, probabilmente, badando agli effettivi doveri impostigli dalla legislazione farmaceutica. Oppure, molto più banalmente, non gli è proprio venuto in mente, così come non gli è venuto in mente di ricordare al cittadino di guardare a destra e a sinistra prima di attraversare la strada, una volta uscito dalla farmacia. Gliene fareste una colpa? Se no, la vostra incolumità vale meno di uno scontrino detratto/dedotto? Eppure, ricordarvi come si attraversa una strada non è meno doveroso, per il farmacista, che ricordarvi come si detraggono/deducono le spese sanitarie al momento dell'acquisto...

Qual è il corretto comportamento?

Rinnovo l'invito a essere pragmatici, se siete interessati a detrarre/dedurre le spese sanitarie: quando arrivate davanti al farmacista, per prima cosa - se volete prima ancora di salutare - tirate fuori questa benedetta tessera sanitaria e appoggiatela sul banco in bella vista. Se servirà, il farmacista la utilizzerà per stamparvi il codice fiscale sullo scontrino in modo che possiate poi detrarre/dedurre la spesa; se non servirà (es.: acquisto di un integratore alimentare) rimarrà lì e, ad acquisto ultimato, potrete rimetterla nel portafogli. In alternativa, se non avete la tessera sanitaria (che comunque, nel vostro interesse, vi raccomando di portare sempre dietro) esordite con qualcosa del tipo: "Buongiorno, Dottore. Io detraggo/deduco le spese sanitarie, quindi, prima di battere lo scontrino, ci stampi sopra il mio codice fiscale, per favore!".
Ricordate che il codice fiscale va STAMPATO SULLO scontrino fiscale: attendere che il farmacista batta lo scontrino per informarvi se il prodotto sia detraibile/deducibile, per informarlo che detraete/deducete le spese sanitarie o per tirare fuori la tessera sanitaria è assolutamente inutile! Ecco, ovviamente se le parti sono invertite - cioè se avete informato il farmacista delle vostre intenzioni e lui, per qualsiasi motivo, si è "dimenticato" di stamparvi il codice fiscale - vale il viceversa: l'errore è del farmacista e sarà, quindi, suo dovere rimediare e vostro diritto esigere (magari con pacatezza, gentilezza e tatto: tutti commettiamo errori, di tanto in tanto, e trovarsi in una farmacia non esenta le persone dall'essere civili ed educate, indipendentemente dalla parte del banco in cui si trovano) la corretta compilazione dello scontrino fiscale.
E' importante comprendere, in definitiva, quale sia il vostro personale interesse: il farmacista non evita di stamparvi il codice fiscale apposta, per farvi dispetto. Semplicemente, quando capita, non ci pensa. Magari ha servito 99 persone prima di voi, lo ha ricordato a tutte quante e ha l'1% di margine di errore: non potete fargliene una colpa. Potreste, se fosse un suo preciso dovere. Ma non lo è. Quindi, se una singola volta capita che sullo scontrino da 13.00 Euro non riusciate a detrarre/dedurre la spesa, pazienza: non saranno certo quei 2,47 Euro (perchè "detrarre/dedurre" significa ottenere un riconoscimento del 19% sulle spese effettuate: acquisto 13,00 Euro di farmaco e detraggo/deduco 2,47 Euro...) a rappresentare chissà quale differenza. Ve ne ricorderete la prossima volta, così non incapperete nuovamente nello stesso errore, nessun problema!

Cittadino Vs. Farmacista!?

Ovviamente no. Quella che ho trattato qui è solo una delle tante situazioni che si creano, soprattutto in farmacia ma non solo, a causa della scarsa informazione diffusa alla popolazione nella nostra società. I media tendono a concentrarsi su altri temi, considerati più importanti e attuali, o a proporre l'informazione in altri termini, decisamente meno trasparenti e chiari, pur di non "urtare" il cittadino (che, a seconda del periodo dell'anno, è sempre un potenziale elettore) oppure ancora a diffondere informazioni obiettivamente distorte e scorrette (questo è un "classico" quando si tratta di temi relativi al farmaco, alla farmacia e, più in generale, alla Legislazione farmaceutica).
Ovviamente, come dicevo, non c'è alcun conflitto fra farmacista e cittadino. Anzi, dispiace sempre molto quando si creano attriti o incomprensioni in farmacia e se velo dico io che sono un farmacista collaboratore (il mio stipendio, per legge, è sempre quello, indipendentemente da quanti clienti entrano nella farmacia in cui lavoro o da quanto essi rimangano soddisfatti di come li serviamo) potete fidarvi abbastanza tranquillamente: la vera soddisfazione, per il vero Farmacista, è riuscire a tutelare al meglio la salute del cittadino-paziente e a instaurare con lui un dialogo produttivo che possa durare nel tempo. Dialogo che può e deve comprendere anche dubbi, domande, richieste di chiarimenti e, per carità (succede persino in famiglia!), fraitendimenti. L'importante è riuscire a chiarirsi, dialogando: DI-alogare significa esprimersi E ascoltare. Se si verifica un malinteso, non c'è niente di male a esporre le proprie perplessità e a richiedere spiegazioni. Mentre le si ottiene, però, occorre avere la pazienza e il buon senso di ascoltare e, una volta terminate, cercare di comprenderle, razionalizzarle e rendersi conto che, spesso, un sorriso e un "vabbè, non importa!" valgono, fra persone civili, ben più di 2,47 Euro.

Dott. Alessandro Taroni,
Ordine dei Farmacisti di Pordenone, n° 499


martedì 24 maggio 2011

Sul drospirenone

La pillola anticoncezionale di terza generazione aumenta il rischio di coaguli di sangue fino a tre volte rispetto a quella tradizionale. Lo hanno scoperto due studi, uno britannico e uno statunitense, pubblicati dal British Medical Journal. Entrambe le ricerche hanno confrontato il contraccettivo a base di drospirenone, piu' moderno, con il tradizionale levonorgestrel. Lo studio americano, dell'universita' di Boston, ha trovato la formazione dei coaguli su 30,8 donne ogni 100 mila nel caso della pillola piu' recente, e di 12,5 su 100 mila per quella tradizionale. I ricercatori inglesi invece hanno trovato numeri diversi, con un valore di 23 su 100 mila per la prima e 9,1 su 100mila per la seconda. "Questi risultati confermano quelli di altri studi recenti - scrivono gli autori - e in assenza di altre indicazioni implicano che la pillola tradizionale e' piu' sicura, e dovrebbe essere la prima scelta da parte del medico".


Fonte: AGI Salute, 22 aprile 2011

Il drospirenone è un principio attivo progestinico relativamente recente, autorizzato per la prima volta nel 2000 e commercializzato in Italia a partire dal 2003, in combinazione con etinilestradiolo, come contraccettivo orale.
Siamo nel 2011. Dieci anni di storia post-marketing, per un "nuovo" farmaco, non sono niente. Basti pensare, come confronto, all'acido acetilsalicilico, sintetizzato nell'800 e ancora oggi oggetto di studi, revisioni, scoperte e rettifiche di impiego.
Eppure, quando il primo contraccettivo orale a base di drospirenone fece la propria comparsa sul nostro mercato, le uniche notizie degne di nota diffuse al pubblico riguardarono le sue presunte proprietà... come definirle?... "miracolose". Questi sono alcuni pezzi di un articolo comparso su la Repubblica.it, a gennaio 2003: "eviterà nausea, ritenzione idrica e gonfiore, aumento di peso"; "promette di eliminare tutti quegli effetti collaterali che, nella gran parte dei casi, determinano l'interruzione della terapia"; "non fa ingrassare"; "può controllare l'ansia, l'irritabilità e anche una certa avidità verso il cibo". Caspita, se avessero scritto che abbassa pure la glicemia me lo sarei fatto prescrivere pure io! Poi, in fondo all'articolo, c'è una nota sui rischi: niente tumori al seno. Ottimo, e per quanto riguarda gli altri potenziali effetti collaterali? Le controindicazioni? Le eventuali interazioni farmaocologiche (alcune delle quali sono proprio un'esclusiva del drospirenone)? Neppure un cenno.

Questa, quando un "nuovo" farmaco viene immesso sul mercato, e sul mercato italiano in particolare, è la tipica "informazione", se così possiamo chiamarla, che viene propinata e diffusa, con quel tocco di sensazionalismo in più, giusto per attirare ulteriormente l'attenzione dell'ignaro lettore. D'altra parte è comprensibile: la pubblicità al pubblico dei farmaci subordinati a prescrizione medica è vietata per legge, quindi la mossa mercantile più ovvia è mascherare la pubblicità da informazione, in modo che giunga al paziente, ridotto così al ruolo di consumatore, e sia egli stesso ad attivarsi per richiedere la prescrizione o per procedere direttamente all'acquisto online - prezzi inferiori, niente code per la ricetta, nessun problema di privacy.

Vabbè, era il 2003. Ci vuol pazienza: il farmaco era appena stato autorizzato per il commercio. Ormai, dopo 10 anni, stanno comparendo sempre più studi, come quello che ho riportato in apertura o questo pubblicato dal Servizio di Farmacovigilanza, relativi ai potenziali rischi del drospirenone. Eppure, ciononostante, la priorità continuano ad averla gli effetti cosmetici del drospirenone: questo, a titolo di esempio, è un articolo pubblicato proprio a maggio 2011. Ovviamente, a presentare le "informazioni" e a dare loro credibilità, c'è sempre un "Dottore" che parla, possibilmente un esperto in materia. Il silenzio sui risvolti tossicologici del farmaco continua a regnare sovrano, non si capisce bene se per malafede, per ignoranza o per inconsapevolezza.

Ora, riflettiamo sulla portata del fenomeno: qui stiamo parlando di drospirenone ma esso rappresenta solo un caso particolare di un contesto molto più ampio, che coinvolge farmaci di ogni tipo (e non mancherò di trattarli in questo spazio). Il drospirenone, oggi, non è più tossico o più pericoloso di quanto non fosse 10 anni fa e, come per la maggior parte dei medicinali, una volta verificate eventuali controindicazioni, tenute a mente le potenziali interazioni farmacologiche e informata la paziente sui principali effetti tossici che possono aver luogo, si tratta di un principio attivo piuttosto ben tollerato.
Semplicemente, cosa che in troppi - il "luminare" di turno per primo - fanno ancora fatica ad accettare, non è possibile esprimersi con disinvoltura su qualcosa che non si conosce ed è intollerabile che si facciano pervenire al paziente notizie prive di alcun riscontro nella letteratura scientifica disponibile. Questo vale in tutti i campi dello scibile umano e, a maggior ragione, in Farmacologia, dove ogni affermazione deve, o dovrebbe, basarsi su un'osservazione sperimentale. Per carità, gli studi pre-marketing esistono e, sebbene lascino spesso molto a desiderare in quanto a completezza, trasparenza e correttezza formale, hanno una loro validità. Validità che, tuttavia, è assolutamente inadeguata a fornire informazioni sicure, definitive e oggettive.
Se così non fosse, gli studi di farmacovigilanza sarebbero inutili e, una volta immesso in commercio, ogni farmaco vi rimarrebbe a tempo indeterminato, col suo bel foglietto illustrativo immutato. Invece, di farmaci ritirati dal commercio sono piene le banche dati di ogni struttura sanitaria e, ogni santo giorno, per decine di lotti di medicinali viene vietata la vendita a causa di revisioni del foglietto illustrativo stesso. E ogni anno c'è qualcuno che incorre in effetti collaterali inattesi, qualcuno che viene ricoverato per effetti tossici gravi non previsti, qualcuno che ci resta secco contro ogni aspettativa. L'inatteso, l'imprevisto, l'inaspettato... che, dopo qualche anno, viene conosciuto, compreso e, infine, assimilato alle altre informazioni già incluse nel benedetto foglietto illustrativo, diventando quasi banale. Capita per tutti i farmaci, da sempre: c'è da chiedersi perchè, nel 2003, il drospirenone avrebbe dovuto fare eccezione ma anche perchè, nonostante tutto, gli articoli rivolti al pubblico non trattino aspetti ben più importanti dell'estetica.

Dott. Alessandro Taroni,
Ordine dei Farmacisti di Pordenone, n° 499